Già il titolo e le dediche (al collettivo di fabbrica di Gkn Firenze, agli operai di Grafica Veneta e Ceva Logistics, a Joseph Ponthus) del libro Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class (minimum fax, pp. 240, euro 15) di Alberto Prunetti ci dicono che è un saggio di sociologia, un’indagine sul mondo del lavoro editoriale e un manuale di letteratura working class, ambito a cui lui stesso – autore dei romanzi Amianto. Una storia operaia (2012), 108 metri (2018) e Nel girone dei bestemmiatori (2020) e curatore della collana Working Class di Alegre – appartiene. E che definisce uno «spettro che si aggira nel mondo dell’editoria tra le due sponde dell’Atlantico» riprendendo l’inizio del Manifesto di Marx. Prunetti non prescinde mai da quella sinistra che insegna agli sfruttati di ieri, oggi e domani la consapevolezza di sé e la difesa da chi li sfrutta per arricchirsi, ieri, oggi e domani.

LA LETTERATURA WORKING class ha una dimensione materiale, è atto della scrittura come tempo rubato al sonno e al lavoro: andrebbe dunque retribuita adeguatamente. L’autore parte infatti dall’analisi della condizione dei lavoratori working class nell’editoria per fare in modo che lo spettro «esponga il suo modo di vedere», ricordando le differenze tra classi sociali: termine, questo, a cui pure i sindacati hanno rinunciato, ma che rimane l’unico sensato. Sono cambiati gattopardescamente i nomi perché non cambiasse nulla: gli ultimi rampolli di generazioni di ricchi – con capitale culturale alto – mantengono una posizione di vantaggio sui rampolli di generazioni di proletari che, anche se i primi in famiglia a laurearsi, non hanno capitale culturale accumulato (come l’autore). E quando vengono assunti nell’editoria rimangono esclusi dalle opportunità disponibili solo a chi non ha preoccupazioni finanziarie: nell’immaginario comune dedicarsi alla cultura è ancora uno status symbol borghese perché «dobbiamo ancora imporre un immaginario in cui anche chi, di estrazione sociale bassa, pubblica libri possa farlo senza sentirsi un transfuga di classe», Ovvero obbligandolo a rinunciare a certi valori per scimmiottarne altri.

IL DISCORSO SI AMPLIA all’analisi della letteratura working class, che in Gran Bretagna (a Bristol si tiene il Working-Class Writers Festival), Francia, Spagna, Svezia e Argentina è diffusa e studiata. Per Prunetti, praticare tale letteratura significa affrontare lo stesso problema di (auto)rappresentazione delle altre minoranze: basta con il paternalismo dei colti che prestano la voce ai proletari, rappresentandoli sempre come sporchi, brutti e cattivi. Bisogna «rubare alla borghesia gli strumenti culturali da usare contro di lei»: non bastano il gergo popolare e qualche anacoluto per fare scrittura proletaria. Il romanzo, genere borghese per antonomasia, va fatto esplodere «usando le sue macerie come materiale di riuso per nuove architetture». La classe lavoratrice deve insomma riappropriarsi della propria voce di classe, evitando di credere alla trovata postmoderna per cui siamo tutti classe media. Questo comporta anche emanciparsi dagli stereotipi di maschilismo tossico (botte, birra e pub) che l’hanno contraddistinta, e a cui i suoi membri maschili a volte si sono abbandonati: emerge così il suo carattere intersezionale, in cui altri sfruttati si riconoscono.

PER QUESTO Prunetti include tante parti in prima persona: l’autore working class deve innanzitutto guadagnare coscienza di sé come scrittore proletario. Si vedano la bibliografia finale, preceduta da tre appendici: un manifesto personale di scrittura working class, interviste a Anneli Jordahl, Kike Ferrari e Anthony Cartwright e tre consigli. Ovvero: leggere il più possibile, tenere il naso e il culo nel mondo e soprattutto – «l’unico consiglio che conta» – scrivere di situazioni working class con la lingua working class. Solo così si può costruire un nuovo immaginario.