I primi venticinque anni di Hunter sono dipesi dall’economia informale del capitalismo, un’economia sommersa che agisce dietro la facciata del libero mercato capitalista. Per lui questo ha implicato essere sex worker, ladro e spacciatore. Negli ultimi quattordici anni Hunter è stato un organizzatore attivo della comunità anti-capitalista, e ora ha scritto un libro sulle sue esperienze di vita»: questa, su Plan C, è la scheda biografica di D. Hunter, autore di Chav Solidarity, tradotto col titolo Chav. Solidarietà coatta da Alberto Prunetti all’interno della collana Working Class che cura per Alegre (pp. 160, euro 15).
La parola chav «è un modo semplice per disumanizzare un vasto gruppo di persone»: i chav, i coatti, sono i marginalizzati e demonizzati dalle politiche neoliberiste dei governi britannici degli ultimi 40 anni. Liquidati come «coglioni bestiali o feccia da sussidio di disoccupazione» dai bravi cittadini liberali, sono il prodotto dell’atomizzazione della working class. Per Hunter, sono persone che si prendono cura a vicenda, fiere e allo stesso tempo tenere, sfruttate e ignorate. Non hanno problemi a reagire per proteggere la propria gente: quando lo fanno, nella difesa delle strade come nei riots del 2011, sono liquidati come teppisti, e alla stessa working class è chiesto di voltare loro le spalle. Sono attraversati dalle segmentazioni sociali, collocati al di sotto di quella classe lavoratrice che, stratificata in maniera da rendere quasi impossibile ogni trasformazione rivoluzionaria, vive delle briciole di chi sta in alto, senza avere coscienza del fatto che «se loro mangiano le briciole, chi sta ancora più in basso resta a stomaco vuoto».

BRICIOLE CHE VENGONO rivendicate con una solidarietà negativa mascherata da etica del lavoro – sono guadagnate in quaranta ore di fatica settimanale, dunque bisogna darsi da fare per conservarle: «fin quando quelli di noi che vengono premiati con le briciole per fare quaranta ore di lavoro alla settimana pensano che ci meritiamo quelle briciole, e che ognuno deve pensare da solo a sopravvivere, allora siamo fottuti».
Hunter parla dei sobborghi londinesi – ma potrebbe essere la banlieue parigina piuttosto che Tor Pignattara o qualunque altra periferia nelle quali le sinistre, i «movimenti dai denti finti» non mettono piede. Parla di quello che viene derubricato, cancellando il legame fra le relazioni interpersonali «degradate» e le strutture e forme del capitale, come degrado sociale: il prodotto di una società classista che ha bisogno di disumanizzare le persone per rendere sopportabile le diseguaglianze. «Troviamo ogni tipo di motivazione per considerare gli altri un po’ meno umani di noi, e diventa più semplice e più devastante se le vittime sono persone meno forti da un punto di vista economico, sociale e culturale»: perché our bodies are classed, i nostri corpi sono intrisi di connotazioni di classe, e i corpi delle persone senza capitale valgono meno.

QUESTI CORPI «DEGRADATI» sono tutt’altro che nuda vita – posto che ne esista, al di fuori delle elucubrazioni che tanto piacciono all’invisibile anarchismo piccolo-borghese: sono corpi che conoscono relazioni o conflittualità quotidiane che sono sempre collegate alle nostre storie individuali e alle storie che condividiamo con gli altri, dunque sempre politiche. Esprimono un senso dell’essere in comune che precede la politicizzazione – la lettura di Marx nei libri di famiglia, si sarebbe detto un tempo – e si manifesta in un istintivo rifiuto dell’obbedienza, perché la vita delle persone obbedienti è la vita di chi continua ad arrabbiarsi, a perdere la casa, ad andare in prigione, a morire per strada.
Hunter ha attraversato questa condizione intrisa di violenza, e ne è stato attraversato, sin dalla sua infanzia. La narra senza compiacimento morboso, ma anche alcun moralismo. Anche se adesso ha l’aspetto di un bibliotecario, è ancora un coatto; non si aspetta di uscirne del tutto, gli basta non sanguinare più: «adesso ho deciso come vivere, come contribuire alla liberazione delle comunità da cui provengo, come difenderle, come sostenere chi non ha potuto godere dei benefici del capitale come ho potuto in certo qual modo fare io».