Il 15 dicembre gli esperti dell’Agenzia Europea del Farmaco (Ema) hanno dato parere positivo all’autorizzazione del Casgevy, una terapia genica contro la beta-talassemia e l’anemia falciforme. Sono malattie congenite dovute a geni difettosi che provocano una malformazione nei globuli rossi. I malati subiscono crisi trombotiche dolorose e spesso fatali che li costringono a sottoporsi a frequenti trasfusioni o, nei rari casi in cui è possibile, al trapianto di midollo. Secondo i test clinici, gran parte dei 71 pazienti trattati con il Casgevy non hanno avuto crisi per oltre un anno, pur in assenza di trasfusioni. Sono risultati molto promettenti, anche se dovranno essere confermati su un numero maggiore di pazienti e su un periodo più lungo. Già approvato in Usa e Regno Unito, il trattamento sarà utilizzabile anche nell’Unione Europea dopo la ratifica da parte della Commissione, che dovrà avvenire entro febbraio 2024.

L’Italia è uno dei paesi più colpiti al mondo da queste malattie, e il primo nell’Ue. I pazienti sono oltre diecimila e si calcola che il 5% della nostra popolazione ne sia portatore sano, con una maggiore incidenza in Sicilia, Sardegna e nel Delta padano. Questa geografia non è casuale: le mutazioni dannose sono un effetto collaterale dell’immunità acquisita nei confronti della malaria diffusa nelle zone ex-paludose, che dipende dagli stessi geni. Gli screening hanno permesso di rilevare i portatori sani e di ridurre il numero di nuovi malati. Ma l’incidenza in questi anni è tornata a salire a causa delle migrazioni che aumentano gli incontri tra popolazioni provenienti da zone a rischio, come quelle dell’Africa equatoriale.

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Com’è ovvio, dunque, da noi il Casgevy suscita grandi speranze. Sviluppata dalle aziende farmaceutiche Vertex e Crispr Therapeutics, la terapia consiste nel prelievo delle cellule staminali, che vengono modificate geneticamente e reinfuse nell’organismo affinché producano globuli rossi sani. Per «correggere» le cellule si usa la tecnica Crispr-Cas9 messa a punto nel 2012 dalle ricercatrici Jennifer Doudna e Emmanuelle Charpentier (fondatrice di Crispr Therapeutics). Da allora ha permesso di intervenire sul Dna con facilità e precisione prima sconosciute, e alle due biologhe di vincere il premio Nobel nel 2020.

Raramente una scoperta della ricerca di base si trasforma in un farmaco in un tempo così breve. Per i vaccini a mRna, ad esempio, tra la scoperta originale di Katalin Karikò (Nobel per la medicina nel 2023) e l’arrivo sul mercato dei vaccini sono passati circa vent’anni, nonostante le ricerche abbiano beneficiato di enormi fondi pubblici e di una sperimentazione effettuata a velocità record.

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La validazione scientifica di una nuova terapia non equivale però alla reale disponibilità di una cura per i pazienti. Da questa parte dell’Atlantico, Italia inclusa, l’acquisto dei farmaci è negoziato dai governi e non dalle assicurazioni private. Perciò, se il prezzo fissato dall’azienda produttrice è troppo elevato può accadere che i governi rifiutino l’offerta scegliendo – non a torto – di investire le stesse risorse in altri farmaci meno costosi o diretti a una platea più ampia. Il rischio è assai concreto per le terapie innovative che arrivano a costare oltre un milione di euro a paziente. I malati di beta-talassemia lo sanno meglio di tutti. Nel 2021, l’Ema aveva autorizzato un’altra terapia genica contro la malattia, lo Zynteglo della statunitense Bluebird Bio. Ma nessun governo è stato disposto a pagare l’astronomico prezzo richiesto (1,8 milioni di euro a trattamento) e la Bluebird Bio ha preferito ritirarlo dal mercato europeo.