Un film di Nanni Moretti a Cannes è sempre un evento, e in Francia poi il regista è amatissimo, «un riferimento nella mia vita» dice di lui Mathieu Amalric, regista e attore tra i protagonisti di Il sol dell’avvenire – secondo titolo italiano in concorso. E questo nonostante la delusione del precedente Tre piani accolto due anni fa con freddezza, forse perché spiazzava troppo lo spettatore dalle sue attese.

Qui invece il pubblico si sente «a casa». E funziona. Almeno nel «test» italiano dove il film è andato – e continua a andare – benissimo con la critica e al botteghino, anche se ripensandoci Tre piani nonostante il fallimento di un equilibrio tra intenzioni e forma funzionava proprio in quella sua sincera «inadeguatezza» che sfiora il disagio.

Però lì Moretti – nella figura dolente di padre malmenato dal figlio – non era come stavolta «il Moretti» in cui si sono ritrovate per anni generazioni di sinistra. Era un «altro da sé», come accade nei film successivi a Caro diario (1993) e Aprile (1998), quando l’autore pur senza rinunciare all’autobiografia – o meglio all’auto-finzione su cui ha costruito l’intera sua poetica- ha scelto di «traslare» in altre figure che ne conservano passaggi esistenziali.

Da La stanza del figlio (2001), quasi l’addio psicanalitico all’io ragazzo-figlio sulla soglia dei cinquant’anni (Moretti è del 1953) al commuovente Mia madre (2015)– che lo vede «traslare» nel personaggio di Margherita Buy, suo alter ego nel processo di elaborazione del lutto per la perdita della mamma, Agata, presenza ricorrente della sua filmografia di giovinezza. Habemus Papam (2011) in cui nel ritirarsi del papa dalla «cosa pubblica» si può vedere l’allusione all’esperienza politica del regista finita con una rinuncia. E Il Caimano dove Moretti «trasla» nel cattivo, Berlusconi, assumendosi il peso del mutamento antropologico italiano.

In Il sol dell’avvenire eccolo tornare il Nanni Moretti «autentico» delle paranoie sulle scarpe, dei giri in Vespa per Roma sostituita dal più contemporaneo monopattino elettrico, del quartiere Prati: una geografia di manie e luoghi riconoscibili nonostante al posto della Sacher torte ci sia il gelato alla crema di zenzero e pistacchio di Bronte.

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Eppure anche questo «vero» Nanni Moretti è l’ennesima «traslazione» nella sua auto-finzione, a beneficio di chi lo vuole vedere così, coetanei, giovanissimi, spettatori cresciuti con lui e nella sua mitologia. Giovanni, il protagonista (Moretti) parla sempre a voce alta, scandendo le parole, un po’ come il suo personaggio di quando diceva: «Ve lo meritate Alberto Sordi!», quasi a ricordarci che sì, è lui ma non è lui, che è un «meta-Nanni Moretti» perché indietro non si torna, perché le cose cambiano e con esse le persone, la realtà, i sentimenti, la vita.

Un regista in crisi nella vita e sul set, il Pci nel 1956 e l’invasione di Ungheria, i luoghi del cuore morettiani

SOLO AL CINEMA si può arrotolare (e srotolare) il tempo, e in quei luoghi (del cuore), tra l’autoironia su di sé e i suoi coetanei, le auto-citazioni, i frammenti dei suoi film c’è questo impossibile ritrovarsi – come è impossibile oggi a settant’anni e con la pancia fare il film da The Swimmer, Il nuotatore, di John Cheever e non solo perché è già stato fatto – «Avrei dovuto farlo quando avevo trent’anni», dice Giovanni/Moretti fra una bracciata e l’altra nella piscina che è subito Palombella rossa.

Ma che film è allora Il sol dell’avvenire? Il titolo sembra alludere all’utopia socialista di un futuro splendente per ogni essere umano sulla Terra. E se quel «sol» si riferisse invece alla nota musicale?

Giovanni è un regista, sua moglie Paola (Margherita Buy) lo produce da anni ma per la prima volta sta producendo il film di un altro: un giovane in carriera che ama splatter, violenza, il contrario del cinema di Giovanni – sembrerebbe quasi l’erede dell’Harry Portrait of a Serial Killer la cui sublimazione critica sconvolgeva i sonni di Moretti in Caro Diario. Significherà qualcosa?

Barbara Bobulova e Silvio Orlando

Il film di Giovanni è ambientato nell’Italia del 1956, in una sezione romana dell’allora Partito comunista italiano al Quarticciolo; ci sono Ennio, giornalista dell’«Unità» e funzionario comunista col tipico grigiore di grisaglia, (Silvio Orlando), e la moglie Vera (Barbora Bobulova).

Hanno invitato il Circo Budavari (ancora una citazione da Palombella rossa!), sono ungheresi e quando arrivano i carro armati sovietici hanno appena invaso Budapest.

Vera si schiera con gli insorti ed è per chiedere al Pci di «rompere»con l’Urss, Ennio frena in imbarazzo. Il film però non funziona, Giovanni sogna di girare una storia d’amore con le canzoni italiane; intanto il suo matrimonio va in pezzi, il produttore francese (Mathieu Amalric) viene arrestato, il mondo intorno gli sfugge, Netflix vuole il «what the fuck» che lui non ha. E quel finale tragico col suicidio del protagonista che solo i nuovi produttori coreani sembrano capire gli suona falso.

La Storia non si fa con i «se» dice Giovanni. E «se» invece fosse possibile? Mantenendo quei «due o tre principi» al cinema come nella vita?

Moretti/Giovanni cambia allora l’Italia comunista (lo ha fatto già Tarantino coi nazisti in Inglourious Bastards, e con Sharon Tate in Once Upon a Time in Hollywood) nel segno dei «buoni»per dirci appunto che al cinema tutto può accadere, anche che il Pci rompa con l’Urss.

In realtà accadde davvero, dodici anni dopo, nel ’68, con l’invasione di Praga quando alcuni comunisti italiani uscirono dal partito – da qui nacque il manifesto con Rossana Rossanda, Luciana Castellina, Lucio Magri. E intanto altri movimenti si affermavano a sinistra.

Ma Moretti a questa storia non si è mai sentito vicino, il suo referente anche quando in modo critico è sempre stato il Pci, poi Cosa o Ds o Quercia e quant’altro fino all’attuale Pd. E con esso i riti, i temi, la cultura, l’immaginario che ne facevano parte, quel cinema italiano mai underground ma organico al sistema in un processo di rispecchiamento popolare di cui Moretti era il catalizzatore.

Questione di scelte e di responsabilità anche sul futuro.

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A UN CERTO punto rappresentarsi – o rappresentare qualcosa – è divenuto però impossibile, il linguaggio comune che ha reso le sue frasi lessico è svanito per sempre. Come separarsi da «quel» Moretti, dal narcisismo della «comfort zone» di calci al pallone, canzoni in automobile (vizio diffuso di un certo cinema italiano), hit musicali tra Battiato e Lontano lontano? E come dire ancora qualcosa (di sinistra?) nel privato che si fa pubblico e viceversa?

Il sol dell’avvenire è in fondo un film su una sconfitta, che è quella dell’autore (prima che del Pci) inchiodato a essere ciò che non può più essere, a ripetere sé stesso nel tempo – forse perché teorizza un cinema che non è di spazio, come spiega al giovane regista nella «lezione» etica sulle immagini e il loro uso e abuso, tra le migliori sequenze del film gridando la sua morale senza sapere a chi.

E VISTO che il privilegio del cinema è appunto reinventare il mondo, Moretti se lo prende e lo afferma nel «suo» mondo, il suo personalissimo «what the fuck» da cui l’insofferenza del passato sembra essere scemata nel ripetersi quasi parodico, a tratti divertente, altre volte imbarazzante di sé.

In questo processo felliniano – pure Moretti peraltro è aggettivo d’autore, si dice infatti «morettiano»- il Fellini di Ginger e Fred in particolare che rifletteva sull’Italia e sul senso della sua arte, ciò che rimane è la memoria (del suo cinema, di un’epoca, di un sentimento comune) nella sfilata finale di personaggi, volti dei suoi attori, delle persone care – forse la sola sequenza davvero emozionante: il «sol dell’avvenire» della sua personalissima utopia fuori dal tempo, che è anch’essa un privilegio. Prendere o lasciare.