Figli e genitori. Non è la prima volta che nel cinema di Moretti questo rapporto con le sue diverse – e faticose – fragilità viene messo al centro della narrazione. Non solo nell’esplicito La stanza del figlio che si sviluppava però intorno al sentimento della perdita, all’impotenza famigliare di fronte a un lutto per il quale non esiste neppure la parola con cui definirne la condizione. Genitori ai suoi occhi di giovane uomo ancora senza famiglia erano i coetanei di Caro diario (1993) – tornato in sala nell’edizione restaurata – che come molti altri film del regista romano tesseva il racconto di una generazione, la sua, colta in diversi passaggi dell’esistenza, qui appunto la genitorialità, talmente concentrata su quei figli unici da renderli insopportabili – la scena dei ragazzini che rispondono al telefono, ancora a gettoni e pubblico senza passare al malcapitato alla cornetta il genitore è esilarante.
Moretti stesso si è rappresentato a lungo come «figlio» insieme ai suoi genitori, passando dall’immagine (pure questa «generazionale») del «rifiuto» di crescere, di uscire fuori dall’evergreen dell’età giovane, alla dolorosa cesura in Mia madre (2015) – nel quale il suo alter ego era un personaggio femminile, interpretato da Margherita Buy, la cui esistenza viene messa profondamente in crisi dalla malattia incurabile della mamma.
Tre piani torna su questa relazione, prossimo a La stanza del figlio, Palma d’oro vent’anni fa, in modo quasi speculare; all’interiorità antepone il desiderio di un pensiero sul mondo che ha messo da parte la leggerezza ironica degli anni «giovani» e aspira a una dimensione universale, non più legata cioè ai coetanei o alle proprie ossessioni. Per la prima volta Moretti ha lavorato su un testo altrui, il romanzo omonimo di Eshkol Nevo (Neri Pozza), riletto insieme a Valia Santella e Federica Pontremoli; la «fedeltà» non è però importante a cominciare dall’ambientazione, che «sostituisce» a Tel Aviv una Roma nord molto borghese di attici e terrazze dove la palazzina come unico orizzonte (metafora di Israele e della sua auto-rappresentazione) si fa per forza altro. Come accade agli stessi personaggi che «spogliati» da quei riferimenti alla realtà o alla memoria israeliane. Cosa sia è da scoprire perché queste famiglie che vivono nei diversi pianerottoli in sé non hanno molto da dire sul nostro tempo, o meglio ne incarnano il discorso comune di ripiegamento, cinismo, indifferenza, egoismo, in un’opacità soddisfatta di sé malgrado tutto.

CHI SONO allora questi condomini di uno stabile senza migranti, senza classe media, senza precariato – come del resto la zona romana in questione è? Una coppia di professionisti, Lucio ( Riccardo Scamarcio) e Sara (Elena Lietti) con una bambina che spesso lasciano ai vicini più anziani, Giovanna (Anna Bonaiuto) e Renato (Paolo Grazioli). Per lei sono un po’ dei nonni, gli vuole bene, sono buffi specie lui, svagato: «Guasto» dice la ragazzina perché dimentica le cose. Dora (Margherita Buy) e Vittorio (Moretti) è una coppia più grande, entrambi giudici hanno un figlio ventenne viziato e vittimista, Andrea (Alessandro Sperduti) che all’eccessiva rigidità dei genitori imputa il vuoto della propria vita pur continuando a approfittare di quei privilegi.
Monica (Alba Rohrwacher) ha appena avuto una bambina, il marito (Adriano Giannini) è sempre via per lavoro, lei soffre di baby-blues e di solitudine, con l’angoscia di essere come sua madre che dopo la sua nascita aveva iniziato a manifestare una psicosi – e oggi è chiusa in clinica. C’è poi quel fratello del marito (Stefano Dionisi) che lui non vuole più vedere, vecchie storie e gelosie, poi l’uomo ha fatto molti errori. E c’è la nipote adolescente della coppia anziana, Charlotte (Denise Tantucci), presenza sporadica (vive a Parigi) ma dirompente, innamorata di Lucio. Nell’abitudine quotidiana di una gentilezza formale non sanno nulla gli uni degli altri, e non sembrano neppure essere troppo interessati a cosa capita al di là di quelle porte. Dunque?

TUTTO COMINCIA con un evento traumatico: Andrea nella notte perde il controllo della macchina e investe una donna finendo dentro la casa di Lucio mentre Monica è in strada con le doglie.
La donna muore, lui era ubriaco, rischia la prigione, per questo chiede aiuto ai genitori ma il padre è inflessibile: deve pagare, non lo sopporta più, per loro è stato sempre un problema, e alla moglie imporrà un aut aut: o io o lui. Ma: si può chiedere a una madre di scegliere? Le coordinate sono poste.
Il ragazzo non sembra neppure essere consapevole di quanto ha commesso, pretende di essere salvato perché sta male e la colpa appunto è dei genitori, della loro orrenda educazione. Più che di colpa si tratta di «responsabilità», quella che il giovane rifiuta di assumere, e probabilmente anche quella dei genitori verso di lui incapaci nella loro «coerenza» di coglierne i disagi e di un confronto più vero.
Poco dopo Renato si perde con la piccola Francesca, lasciata lì dal padre nuovamente nonostante avesse deciso il contrario – a causa delle stranezze dell’uomo e di un suo atteggiamento troppo affettuoso, bacetti, cavallucci in cui lui vede un sospetto di pedofilia – per non saltare la palestra. Li ritrovano in un bosco e Lucio si fissa che è successo qualcosa – forse perché si sente in colpa? La rabbia lo porta a insistere nonostante tutti neghino fino a aggredire l’anziano ricoverato in fin di vita per un ictus.

QUESTO BORDO tra «colpa» che prevede sempre un’ autoassoluzione, e «responsabilità» che significa invece mettersi in gioco e fare fronte a una dimensione collettiva, è quanto interessa il regista come spazio di un contemporaneo che ha dimenticato la politica. Valgono i gesti, le azioni, l’essere disposti a una «cura» che si oppone all’indifferenza. Quale è il limite per ognuno, quale la sincerità delle proprie scelte e quale invece «la facciata»?
Non sono interrogativi in cui districarsi facilmente, Moretti semina piste, procede tra inciampi che riflettono l’obbligata incertezza di fronte a questi temi, e parallelismi che rischiano di essere semplificatori – la vicenda di Lucio che fa sesso con Charlotte, lei ha sedici anni, lui avrebbe dovuto non farlo, però lei lo voleva: ancora una volta quale è il limite?
A muoversi rispetto agli uomini, ancorati al loro ruolo sono più le figure femminili, ma soprattutto i figli, che nell’arco degli anni in cui si svolge la storia mostrano ancora una «disponibilità» che i genitori (non gli adulti in genere) hanno perduto. In questo senso, è il personaggio di Alba Rohrwacher il più arioso, nonostante il suo malessere, è lei con le sue strane visioni e la paura della follia a far circolare un soffio, a aprire un orizzonte di fuga tra quelle mura. Gli altri nonostante tutto appaiono rigidi, costretti in un impaccio che è poi quello del film, privo di certezze, a tratti a disagio persino con sé stesso. Trovare un proprio posto (un punto di vista) nel presente è doloroso.