Se si dovesse dare un voto da uno a dieci a Il sol dell’avvenire, il nuovo film di Nanni Moretti, sarebbe senz’altro 9 e 1/2. Per due motivi. Il primo più strettamente legato ai ricordi scolastici, perché questo lavoro sfiora la perfezione, il secondo perché forse come non mai Nanni ha preso Fellini come chiave, sia mostrando la sequenza finale di La dolce vita, sia citando 8 e 1/2, sia utilizzando il circo come momento importante del suo racconto, sia con la scena iniziale in cui il titolo del film viene dipinto sulle arcate di un ponte come a suo tempo al teatro 5 di Cinecittà dipingevano il cielo azzurro con nuvole i due operai sul trabattello.

Nanni Moretti
Ho sempre reagito andando contro l’onda, e anche in questo momento di difficoltà delle sale ho continuato a pensare, scrivere e girare

DEL RESTO «il cinema è come il lavoro dei trapezisti, non si sa mai cosa succederà». Però Fellini non è l’unico regista a comparire, ci sono Ophüls e l’inizio di Lola, viene citato Un uomo a nudo di Frank Perry, The Blues Brothers di John Landis (per l’unica deroga possibile nei confronti delle pantofole usate da Aretha Franklin) e ancora Kieslowski e Un breve film sull’uccidere, John Cassavetes e l’improvvisazione, San Michele aveva un gallo dei fratelli Taviani e chissà quant’altro sfuggito nell’inarrestabile e irresistibile racconto a incastri orchestrato da Nanni.

La redazione consiglia:
«Il sol dell’avvenire» e l’utopia di cambiare la storia col cinema

Per dare un’idea della storia diremo che il protagonista Giovanni (Nanni) è un regista, con moglie produttrice (Buy), che vuole girare un film sui comunisti italiani e il 1956 quando l’Urss invase l’Ungheria reprimendone duramente la voglia di libertà. Eccoci quindi al Quarticciolo dove il dinamico quadro Pci (Orlando) con moglie allineata (Bobulova) invitano un circo per allietare le masse. Solo che il circo Budavari è ungherese e laggiù, in quel momento, succede di tutto, come documentano le ancora poche tv domestiche.

La moglie però sta anche producendo un film d’azione con un altro regista. E Giovanni va sul set, bloccando le riprese anzi proprio «l’ultima scena», ben lontana da Leonardo, contestando l’uso della violenza come intrattenimento (per sostenere la sua tesi consulta anche Renzo Piano, Chiara Valerio, Corrado Augias e telefona a Scorsese).

Questo mette ancor più in crisi il suo matrimonio. Già perché il film parla di comunismo, ortodossia, obbedienza e politica, poi di cinema e di etica, ma anche d’amore e di rapporti di coppia, con un utilizzo emotivamente irresistibile di canzoni italiane (Noemi, Tenco, De André, Battiato).

E ancora Nanni insiste con i suoi capisaldi: le scarpe, magistrale la critica del sabot, l’interferire con quanto devono dire gli altri, le facce che commentano quel che succede e di solito viene disapprovato, il riferimento ungherese, le frasi in inglese (indimenticabile «what the fuck»), oltre all’aver richiamato tutti i suoi attori feticci e non in una festosa parata laica.

MA CI SONO anche momenti decisamente innovativi come il confronto con Netflix, un’imprevedibile tolleranza, seppur non in prima battuta, nei confronti del fidanzato della figlia piuttosto agé. Moretti si rivolge ai suoi coetanei, a coloro che hanno avuto una formazione simile e orientata a sinistra e li invita a riflettere, non sul comunismo, ma sulla vita in generale e anche sulla morte.

Inevitabile poi che il suo pubblico (anche se il suo alter ego afferma «mi piace dire che non penso al pubblico quando faccio un film» salvo aggiungere subito «ma non so se sia vero») si ritrovi sia nei momenti di passione cinematografica, sia in quelli più esistenziali perché qui siamo alla «morte dell’arte, del comunismo e dell’amore». Questo nuovo Moretti è un film che prende il cuore e lo strizza spremendone commozione ma anche grandi e liberatorie risate. Forse pervase da frammenti di malinconia, ma non per questo meno dirompenti.

Perché si ride davvero molto di fronte a questo monumentale guardarsi allo specchio, con tanta voglia di avere tutto sotto controllo mentre la realtà è sfuggente, scivola da tutte le parti, devia in modo imprevedibile, è inafferrabile e una volta che sembra di averla agguantata e addomesticata è già andata altrove a disegnare nuove trame.

«Il nostro cinema è vivo ma un tempo i film venivano preparati bene, coccolati, il pubblico ora non capisce cosa stia uscendo. Tanti e tanti film buttati allo sbaraglio e un po’ a casaccio. Questa è una cosa non bella».

Così Nanni Moretti alla presentazione di «Il sol dell’avvenire» a Roma. Il regista ha poi espresso un giudizio netto in merito alle piattaforme: «Vanno bene per le serie, i film si devono fare per il cinema». Alla domanda su quali siano le sue attese per Cannes, dove il film sarà in concorso, risponde: «Mi preparo come le altre volte. È bello quando c’è una platea che ride e si commuove, ancora più bello quando questa platea è il palazzo del cinema di Cannes. Mi dispiace che questa volta non ci sia anche Matteo Garrone».

CI SARÀ chi potrà storcere il naso, affermando che questa è un’ulteriore prova del narcisismo di Moretti e della sua autoreferenzialità (addirittura nel film si autodefinisce «delizioso»). E allora forse vale la pena di scomodare di nuovo Fellini per ricordare che tutto il suo cinema era autoreferenziale, ma questo non è stato certamente un limite, anzi ha contribuito in maniera decisiva a farlo diventare addirittura un aggettivo.

In attesa che i francesi lo incoronino a Cannes citiamo di nuovo Giovanni con voce e volto di Nanni, «Ognuno nella vita dovrebbe avere due o tre principi», ecco, forse ci siamo un po’ dimenticati che qualche punto fermo come bussola potrebbe non guastare, se poi questo potesse spingerci a rileggere e a modificare la Storia per strappare un sorriso, tanto meglio.