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Senza istruzione e informazione l’alternativa è impossibile

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Opinioni Non pago di aver smantellato la struttura sociale, il capitalismo vuole cancellare ogni residua possibilità di resistenza, investendo la scuola, la conoscenza, la cultura

Pubblicato circa 2 ore faEdizione del 2 novembre 2024

La notizia che Volkswagen ha in programma la chiusura di tre stabilimenti, con contorno di licenziamenti e decurtazioni salariali, annuncia la conclusione di un lungo ciclo la cui curva discendente era iniziata quarant’anni fa: il ciclo della manifattura. Fuori d’Europa si produce a costi più bassi e magari anche meglio. Il fatto economico è drammatico, lo è pure quello politico.

La manifattura era il fondamento dell’equilibrio democratico invalso nel dopoguerra. Era l’entroterra sociale dei partiti di sinistra, che erano istituzioni poderose, radicate socialmente, che, insieme ai sindacati, si facevano portavoce del mondo del lavoro e degli strati popolari e costituivano un formidabile contropotere opposto alla ricchezza. Grazie ad esso la democrazia formale si è arricchita dei cosiddetti diritti sociali. Che però, come tutti i diritti, se non sorretti da qualche robusto potere, o contropotere, restano pie esortazioni.

Il capitalismo si è tratto d’impaccio con le delocalizzazioni, il basso costo del lavoro e la finanza. I partiti di sinistra per salvarsi hanno invece rinunciato alla rappresentanza dei ceti popolari e si sono rivolti ai ceti intermedi. Ma i loro successi elettorali sono dipesi per lo più dai disastri sociali perpetrati dalle destre al governo. Così l’elettorato popolare li ha abbandonati. Malgrado il racconto di moda, solo una piccola parte si è rivolta alla destra estrema, una parte si astiene per protesta e per molti altri la politica è fuoruscita dal loro orizzonte. Vi rientra in via provvisoria in circostanze eccezionali. Cosicché la destra, oggi egemonizzata dalla variante nazionalista e xenofoba, gode by default di una condizione di vantaggio.

NON PAGO di aver smantellato la manifattura e disossato la struttura sociale, il capitalismo vuol ora cancellare ogni residua possibilità di resistenza, investendo l’informazione, la conoscenza, la cultura. Due i fenomeni salienti. Uno è la rivoluzione dei regimi d’informazione. Solo in minima parte la stampa si sottrae agli imprenditori privati. L’informazione televisiva è ipotecata dai media commerciali. I social occupano gli interstizi. E in atto una massiccia attività di selezione, manipolazione, distorsione delle notizie e anche d’intossicazione culturale. In misura crescente i cittadini si autoescludono dall’informazione e si scavano una nicchia personale d’intrattenimento.

Il secondo fenomeno è la descolarizzazione di massa. Nella scuola una vena classista c’è sempre stata. I figli di chi ha studiato e dispone di mezzi economici se la cavano meglio degli altri. Ma la scuola pubblica fino a qualche decennio fa provava a compensare. La competizione tra scuole vanifica questa possibilità. Gli edifici si degradano, la formazione degli insegnanti è approssimativa, gli stipendi sono inadeguati, i contenuti dell’insegnamento s’impoveriscono, qualche tecnocrate a servizio delle grandi imprese detta percorsi formativi e procedure di valutazione, sempre più numerosi i giovani che giungono all’università con serie difficoltà di lettura e scrittura. Tranne una minoranza di università private e pubbliche, il sistema universitario è sottofinanziato, mentre le telematiche distribuiscono, con lauti profitti, vacui titoli di studio. La prospettiva è una società meno informata, meno istruita, soprattutto sprovvista di capacità critiche. L’ideale per chi vuol governare e arricchirsi senza problemi.

E rimediabile un simile disastro? A pensare in grande, forse una ben temperata politica industriale potrebbe riaprire la grande partita del lavoro. Ma poiché la partita è politica e il sindacato è troppo debole, le politiche industriali resteranno un miraggio. Ricorre spesso la proposta di riabilitare i partiti e di rimetterli in contatto coi cittadini, sottraendo al contempo ai media il monopolio del dibattito pubblico e dell’agenda. Sarebbe un’impresa benemerita, ma la “società dei salariati” non c’è più e, ammesso che si silenzino le satrapie che controllano i partiti, non si rimette il dentifricio nel tubetto: non sarebbero comunque un contropotere.

PIÙ REALISTICO è il tentativo di opporsi alla disinformazione e descolarizzazione di massa. La società è disseminata di infiniti luoghi di controinformazione e resistenza culturale vitali e vivaci. Che incidono poco perché dispersi. Una prima mossa sarebbe coordinare e amplificare la rete informativa che si è sviluppata oltre i grandi giornali e le grandi catene televisive, sfruttando la rete e i social. Immaginiamo un unico portale che ne agevoli l’accesso: che segnali giornali e riviste a stampa, on line, siti di controinformazione, case editrici, con respiro internazionale. Che fornisca documentazione, dati statistici materiali di ricerca, consigli di lettura.

L’altra mossa sarebbe un grande piano di riscolarizzazione dal basso. E se s’inventasse una grande scuola e università popolare, che mobiliti e raduni competenze e competenti, offra lezioni on line, metta in circolazione podcast e filmati, delinei percorsi formativi, insegni a leggere, scrivere, far di conto, nonché storia, geografia, economia, musica, ecc., che schiuda finestre su quei mondi diversi che sono penetrati fra noi? Che educhi a riflettere, discutere, criticare. Il personale qualificato pronto a redistribuire le proprie conoscenze a giovani e meno giovani non manca. Già vi sono istituzioni che operano in questo campo. Si tratta di coordinarne l’attività, pubblicizzarla, amplificarla. Non avrebbe resa elettorale immediata. Ma sarebbe la premessa di un moto di resistenza all’ignoranza, alla disinformazione, al conformismo, ai luoghi comuni, rivolto anzitutto al popolo esiliato dalla politica.

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