In giorni non lontani, un compatto schieramento istituzionale – dal governo Meloni alla Suprema Corte di Cassazione – ha respinto ogni tentativo di disapplicare il regime di detenzione definito dal 41 bis ad Alfredo Cospito, già debilitato dallo sciopero della fame in atto, con motivazioni di principio soprattutto legate all’autorità dello Stato e meno attinenti alla ratio di quella norma che ha lo scopo specifico di impedire collegamenti criminosi dal carcere. L’argomento tornerà all’ordine del giorno, anche se il ricorso in atto alla Cort europea dei diritti dell’uomo potrebbe attenuarlo.

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Mi sono tornate in mente le durissime parole con cui Luigi Pintor condannò la così detta linea della fermezza che, escludendo ogni trattativa con i rapitori di Aldo Moro, ne segnò il destino. Egli colse prontamente il senso profondo di quella politica, denunciando il comportamento dello stato, che chiamò “smandrappato e scorreggione” e che si comportava, invece, come se fosse quello prussiano, all’epoca di Federico II.

Perchè mi sono venute in mente queste parole e sento il bisogno di citarle, malgrado vi sia finalmente giusto motivo per festeggiare a sinistra il profilarsi di un’opposizione più incisiva e più unita al governo? Quella decisione alimenta in misura evidente le iniziative delle forze c.d. anarco-insurrezionaliste che da mesi producono atti di violenza di piazza, con il sicuro effetto di rendere di più difficile attuazione e gestione altre democratiche e pacifiche manifestazioni di cui sentiamo crescente bisogno.

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Esattamente ciò che è avvenuto nei giorni scorsi, culminando (per ora) nell’esibizione, davanti al liceo classico Carducci di Milano, di uno striscione che ritraeva membri di governo appesi a testa in giù, con un evidente richiamo a Piazzale Loreto, e con la ripetizione di atti di violenza – non è la prima volta, proprio a Torino – contro negozi ed oggetti privati, giustamente condannati da Elly Schlein.

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Testimoni oculari hanno denunciato, in questa occasione, la passività delle forze dell’ordine presenti (cfr. La Stampa 5.3.23). Esattamente come avvenne su più larga scala, nella prima giornata del fatidico G8 di Genova, quando i violenti in campo, i così detti black bloc furono lasciati liberi di mettere a fuoco e fiamme la città, mentre la repressione violenta da parte dello Stato – anche in questa occasione era appena stato insediato un governo di destra – il giorno successivo fu riservata a manifestanti sicuramente militanti, ma assolutamente pacifici.

Ne deriva uno schema politico, con radici nella storia tormentata della nostra Repubblica, che risponde a leggi di rapporto tra causa ed effetto – il cui prodest ciceroniano – senza fare ricorso ad ipotesi cospiratorie, possibili ma, per loro natura, difficilissime da dimostrare. Facciamo attenzione a questa successione di eventi: cresce l’opposizione democratica al governo del Paese; parallelamente si sviluppa una forza organizzata con forme di opposizione violenta, in taluni casi dimostratamente infiltrate; le autorità costituite ne consentono la crescita, talora con un atteggiamento passivo delle forze dell’ordine di fronte ad atti palesi di violenza; in momenti critici salienti, intervengono divieti che incrementano l’aggressività dei violenti e colpiscono libere manifestazioni di opposizione democratica. La violenza, priva di sbocchi, stabilizza e, in parte, rilegittima il potere costituito a spese dell’opposizione democratica.

Poiché questo schema di comportamenti si è ripetuto, in forme più o meno tragiche, nel corso degli ultimi cinquant’anni, occorre vigilanza nel difendere lo stato di salute delle istituzioni democratiche, tenendo presente il manifestarsi di un doppio stato – di cui uno gestito in forme incontrollate in parallelo a quello costituzionale – secondo quanto analizzato da Franco De Felice (cfr. Doppia lealtà e doppio Stato, in “Studi Storici”, n.3, 1989) e negli ultimi scritti da Norberto Bobbio (cfr., ad es., La democrazia e il potere invisibile , in “Italian Political Science Review”, vol. 10, issue 2, August 1980, pp.181-203.) e ripreso nell’intervento di Roberto Scarpinato al Senato, in occasione dell’insediamento del governo Meloni.