“Dispiace dirlo ma va ricordato che qualsiasi vantaggio per la cultura, per la società viene dopo. Prima va considerato il danno per il mercato. Per il mercato degli editori, che ha la priorità”. Si usano le virgolette perché anche se sembrano le frasi un po’ naïf di qualche commentatore ultraliberista, queste parole sono state pronunciate, poche settimane fa, in un’aula di tribunale. Esattamente dal giudice John G. Koeltl, del distretto meridionale di New York. Che ha chiuso così una causa intentata da quattro colossi dell’editoria – Hachette, HarperCollins, John Wiley & Sons e Penguin Random House -, quasi monopolisti negli States e in tanta parte del mondo nella pubblicazione e vendita di testi scientifici, di libri per le università, per le scuole.

Causa vinta contro una biblioteca che è anche un’organizzazione no-profit: Internet Archive / Open Library. Colpevole di aver prestato “troppi libri”, troppi libri digitali, troppi ebook agli studenti durante la pandemia. Quando i ragazzi erano costretti a seguire le lezioni da casa, con le scuole chiuse, quando le biblioteche comunali e statali erano inaccessibili fisicamente per il lockdown. Colpevole di aver violato – dicono i detentori, ma solo loro e quel giudice newyorkese – il copyright. Che invece va “tutelato” al di sopra di qualsiasi esigenza sociale.

È una storia che va raccontata, dunque. Anche perché la sentenza – la prima nell’iter giudiziario, alla quale la biblioteca si è subito appellata – ha finito per cambiare le carte in tavola. Rischiando di diventare un boomerang per i colossi editoriali.

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La vicenda comunque non nasce col Covid, il suo primo capitolo è datato addirittura 1996, quasi trent’anni fa. Quando Brewster Kahle, laureato al Mit, nello stesso giorno di un lontano febbraio, dà vita a due progetti. Uno lo renderà ricco, l’altro è al centro di questa storia. Perché Brewster Kahle fonda Alexa – attenzione a non confonderla con la famosissima assistente vocale – che cerca metadati nel web per razionalizzare le ricerche on line. Precursore di fatto degli strumenti di ricerca, talmente efficiente che sarà acquistato per 250 milioni di dollari da Amazon.

Ma l’allora trentaseienne – che, tanto per dirne un’altra, già all’epoca lavorava sull’intelligenza artificiale e che forse è uno degli ultimi simboli della prima epoca della rete, quella tutta utopie e facile speranze – puntava ad altro. La sua idea? Lui stesso l’ha definita, magari con un po’ di immodestia, “la creazione di una biblioteca di Alessandria del terzo millennio”. La filosofia, lo ha detto sempre lui, doveva essere la stessa che ispirò i Tolomei duemila e trecento anni fa: raccogliere tutto il sapere, le conoscenze elaborate dagli umani e metterle a disposizione di chiunque.

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L’ennesimo sogno di un tecno-utopista fuori dal mondo? Un po’ per la sua autorevolezza in campo scientifico – si è preso anche una laurea honoris causa al Simmons College –, un po’ perché coglieva un bisogno diffuso – “liberare le conoscenze” – il progetto è andato avanti. Diventando concreto. Grande, gigantesco. Oggi ha nel suo data base 34 milioni di libri, moltissimi dei quali non rintracciabili in nessun’altra biblioteca. Volumi rarissimi, scansionati, disponibili in versione digitale.

Ma questa è solo una minima parte dell’attività dell’associazione, che ormai ha molte decine di dipendenti e migliaia di attivisti volontari, oltre che collaborazioni con le più importanti istituzioni culturali del mondo. Perché l’archivio – e crea imbarazzo anche solo scriverlo – sta provando a catalogare anche tutto ciò che è stato ed è prodotto sul web.

Oggi ha 70 petabyte (70.000 terabyte), che significano 635 miliardi di pagine web, 14 milioni di registrazioni audio e altro ancora. E lì si possono consultare – con un po’ di esercizio, va detto – anche siti che non esistono più. Un lavoro che continua quotidianamente: perché in costante contatto con professori ed operatori di biblioteche, “Open Library” ogni giorno aggiunge al database quasi tremila pagine di Internet. Su tutti gli argomenti.

Qui la pagina di ilmanifesto.it

La prima schermata di ilmanifesto.it su Internet Archive, nel 1998
La prima schermata di ilmanifesto.it su Internet Archive, nel 1998

Questo è e questo fa l’associazione no profit. Che ha quattrocentomila contatti al giorno, da tutte le università del mondo. E si arriva così a quelle drammatiche giornate del 2020, quando dilaga il Covid. E quando con molto colpevole ritardo anche l’America di Trump decide il lockdown.

Tutto chiuso, scuole comprese. L’Internet Archive – com’è ovvio e facile intuire – ormai da tantissimo tempo aveva la capacità di prestare e-book on line. Utilizzava sostanzialmente il CDL, il “prestito digitale controllato”, una sorta di accordo con gli editori, non codificato dalle leggi, per il quale una biblioteca può prestare libri digitali ad una persona alla volta. Persona che deve essere identificata con nome e cognome. Libro che ovviamente deve essere stato prima acquistato dalla biblioteca.

Ma quelli erano giorni drammatici. A scuole chiuse, a biblioteche e centri sociali chiusi. L’unica alternativa era acquistare testi e farseli portare a casa da Amazon. Cosa impossibile per la stragrande maggioranza degli studenti. Così “Internet Archive” ha rimosso i limiti al prestito digitale. I testi non sono stati più spediti via mail ad uno studente alla volta ma i file inviati a più persone contemporaneamente, inviati a chiunque ne avesse bisogno in quel momento. Gratuitamente, come sempre.

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L’emergenza pandemica è poi finita e “Internet Archive” ha ripristinato il vecchio metodo: gli ebook si prestano uno studente alla volta, bisogna mettersi in fila.

Ma tutto questo non è bastato ai quattro colossi dell’editoria. Che hanno denunciato l’associazione per violazione del copyright. E come s’è detto, poche settimane fa c’è stata la sentenza del giudice John G. Koeltl. Che non ha riconosciuto nessuna attenuante ad Internet Archive: né quelle previste dal “fair use” statunitense, che consente l’uso di opere protette da copyright per scopi culturali, né quelle ovvie che nascerebbero da motivazioni sociali.

Il giudice ha dato ragione alla Hachette, alla HarperCollins, alla John Wiley & Sons e alla Penguin Random House.

Ci sarà un ricorso, che comporterà altre ingenti spese giudiziarie. Ci sarà un ricorso, anche se pochi si illudono su un ribaltamento della sentenza, che comunque comporterà parecchi oneri per l’associazione. Ma – anche questo si è detto – la sentenza ha già prodotto l’effetto inverso a quello voluto dai signori del copyright. Ha creato un movimento, ha suscitato una discussione, ci sono le prime iniziative legislative per fermare l’arroganza dei gruppi editoriali. Si è ripreso a discutere sul futuro delle biblioteche.

Così, pochi giorni dopo la sentenza, a San Francisco si sono trovate centinaia di persone in piazza, portate da uno dei gruppi più combattivi per i diritti digitali, “Fight For The Future”. E lì, per usare un’espressione da vecchia politica analogica, gli “obbiettivi si sono allargati”.

Lia Holland, direttrice delle campagne di Fight for the Future
“A nessuno dovrebbe importare se un libro è stampato o è un file digitale, le biblioteche dovrebbero essere in grado di possedere e preservare le nostre storie e le diverse voci di autori, grandi e piccoli, per le generazioni a venire. Le persone dovrebbero essere in grado di leggerle senza paura di essere sorvegliate o punite per aver cercato conoscenza”

Perché l’irragionevole denuncia contro Open Library rivela quali siano le strategie degli editori verso le biblioteche di domani: vorrebbero trasformarle in grandi database dove loro scriveranno le regole. Dove loro decideranno cosa sarà prestato e a chi. Dove loro decideranno cosa distribuire. Immagazzinando anche tanti dati delle persone. “Con un enorme potenziale sulla censura da non sottovalutare”, per usare le parole, proprio alla manifestazione di San Francisco, di Cindy Cohn, direttrice della Electronic Frontier Foundation. Ed ancora, come ha spiegato Lia Holland, direttrice delle campagne di Fight for the Future: “A nessuno dovrebbe importare se un libro è stampato o è un file digitale, le biblioteche dovrebbero essere in grado di possedere e preservare le nostre storie e le diverse voci di autori, grandi e piccoli, per le generazioni a venire. Le persone dovrebbero essere in grado di leggerle senza paura di essere sorvegliate o punite per aver cercato conoscenza”.

Manifestazione a San Francisco per l’accesso libero alla conoscenza, 8 aprile 2023, foto di S. Smith Patrick

Qualcosa si è messa in moto, dunque. E così è arrivata anche la lettera aperta di trecento autori, con i nomi più rilevanti della cultura statunitense. Da Neil Gaiman a Naomi Klein, passando per Jeremy Hawkins, Julianna Douglas, Erik Leroy, Lawrence Lessig e tanti altri, tutti hanno chiesto agli editori di fare un passo indietro. Ed hanno chiesto ai legislatori di garantire la “conoscenza per tutti”.

Difficilissima, allora, ma la partita sembra riaperta.