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I disastri neoliberali incoronano Trump

Trump won, Supporter trumpiani a Palm Beach, Florida - foto ApTrump won, Supporter trumpiani a Palm Beach, Florida - foto Ap

L’America in rosso Legami di cittadinanza indeboliti, solidarietà messa ai margini, cittadino ridotto a consumatore: il vincitore marcia sulla società a somma zero costruita e difesa dagli sconfitti

Pubblicato circa un'ora faEdizione del 8 novembre 2024

L’elezione che ha riportato Donald Trump alla Casa Bianca è la prima del ventunesimo secolo. Sembra una forzatura, ma le analisi del voto descrivono una situazione politica che mette in crisi buona parte degli assunti su cui si sono basate le nostre interpretazioni della democrazia statunitense negli ultimi decenni. Quando fu eletto per la prima volta, nel 2016, Trump era un outsider della politica, che era riuscito a imporsi nelle primarie del partito Repubblicano, ma non aveva ancora riplasmato il partito a propria immagine.

Nel corso del suo primo mandato, questa condizione lo ha messo in conflitto con una parte dell’establishment repubblicano, che non era a proprio agio con uno stile di leadership e scelte politiche che segnavano una certa discontinuità rispetto alla tradizione del conservatorismo Usa.

La sua avversaria, Hillary Clinton, era invece un’esponente di primo piano dei Democratici. Studi in università prestigiose, moglie di un ex presidente, ex senatrice di New York, e poi segretaria agli esteri nell’amministrazione Obama. Clinton era la rappresentante tipica del partito Democratico post guerra fredda. Neoliberale in economia, interventista in politica estera.

Quando si è ricandidato, Trump è stato sconfitto dall’ex vicepresidente di Obama. Un uomo con un profilo per molti versi sovrapponibile a quello di Hillary Clinton, e anche a quello di Kamala Harris, la sua vice, che lo ha sostituito in corsa come candidata alla presidenza.

NEL FRATTEMPO, l’ex presidente repubblicano non è stato inerte. Ha consolidato il proprio dominio sul partito, facendone qualcosa di nuovo, che assomiglia al paese che vuole rappresentare: un melting pot nel quale ci sono megamiliardari, celebrità dello spettacolo e dei social, suprematisti bianchi, ebrei ultra nazionalisti, esponenti di minoranze (neri, latini, arabi e asiatici) che non si riconoscono più nell’idea di emancipazione che la Corte Warren aveva disegnato nelle sentenze del caso Brown vs. Board of Education dei primi anni Cinquanta.

Agli esponenti di questa nuova coalizione la democrazia Usa piace, ma il modello che hanno in mente è la versione contemporanea di quello che le decisioni della Corte Suprema avevano smantellato: «separate but equal». Eguaglianza nella separazione, ognuno per sé e con i suoi (la famiglia, i soci in affari, i fedeli che frequentano lo stesso luogo di culto), impegnato in quella gara per emergere che è, sin dalla sua fondazione, il mito della democrazia statunitense.

L’abilità di Trump (che ha che fare più con la capacità di vendere che con la politica nel senso novecentesco, noi ne sappiamo qualcosa) è stata di dare a ciascuna delle tessere di questo puzzle la speranza di avere il proprio posto nella nuova immagine del paese che si accinge a comporre, ora che può contare sul controllo dell’esecutivo, della Corte Suprema, e in qualche misura anche del potere legislativo attraverso il “suo” partito.

Chiaro che non tutte le tessere riceveranno uguale risalto, alcune saranno centrali nel definire l’immagine (fuor di metafora riceveranno di più in termini di risorse: potere, opportunità di arricchimento, riconoscimento sociale, influenza), ma questo nella versione aggiornata del modello «separate but equal» non sarà un problema, almeno fino a quando la speranza di essere tra coloro che ne traggono beneficio permane.

LA COMPOSIZIONE e il successo elettorale di questa nuova coalizione sarebbero state probabilmente impossibili senza il talento di venditore di Trump, ma non sono figlie della sua visione politica, perché l’uomo non ne ha una. Avrebbe potuto darsela, ma non ne ha avvertito il bisogno. Nel regime neoliberale, che i Democratici hanno contribuito a disegnare e hanno pervicacemente difeso sin dalla fine degli anni Novanta, si sono realizzate tutte le condizioni perché un demagogo spregiudicato avesse successo: indebolimento dei legami di cittadinanza, erosione sistematica delle pratiche che generano solidarietà (da quelle nei luoghi di formazione a quelle sul posto di lavoro), riduzione del cittadino a consumatore che si realizza in ciò che è in grado di comprare, si misura su ciò che non può pagare, e vede chiunque non sia parte della propria cerchia di legami prepolitici come un concorrente, persino un potenziale nemico, nella lotta per avere accesso a una quota di risorse.

Una società a «somma zero» dove ciascuno prende ciò che può, in misura della propria fortuna, della propria influenza o del proprio potere (e in qualche caso, non c’è dubbio, anche delle proprie capacità).

LA SCONFITTA dei Democratici sarebbe più amara se si rendessero conto di essere stati in larga parte artefici della propria rovina. Le spiegazioni sono varie, ma concorrenti. Incapacità di sottrarsi all’egemonia intellettuale che il modello neoliberale ha sui vertici del partito (nonostante la maggiore attenzione alle politiche sociali mostrata da Biden).

Indisponibilità a ascoltare i segnali di allarme provenienti da voci diverse, consapevoli della crescente fragilità della presa del partito sui suoi elettori tradizionali. Da ultimo la complicità in un massacro di civili senza alcuna scusa o giustificazione, che ha alienato elettori potenziali appartenenti a gruppi diversi. Una minoranza, forse, ma con un’idea del futuro alternativa a quella che si delinea nel populismo autoritario di Trump.

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