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Il business degli articoli scientifici

Il business degli articoli scientifici

Codici aperti Il gigante editoriale olandese Elsevier ha vinto a New York la causa contro i portali Sci-Hub e Library of Genesis, accusati di violazione del copyright perché consentivano (giustamente) l'accesso gratuito a milioni di saggi. Una sentenza solo simbolica perché gli «imputati» hanno sede in Russia, fuori dalla giurisdizione americana

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 2 luglio 2017

Se qualcuno pensava che la battaglia per il libero accesso alla conoscenza nel secolo XXI fosse facile da vincere, pochi giorni fa ha ricevuto una bella doccia fredda. Il gigante editoriale scientifico Elsevier, con sede in Olanda, il 21 giugno scorso ha vinto a New York un’emblematica causa contro i portali Sci-Hub e Library of Genesis, perché consentono l’accesso gratuitamente a decine di milioni di articoli scientifici.

IL GIUDICE HA IMPOSTO una multa di 15 milioni di dollari a entrambi i siti per aver infranto le leggi sul diritto d’autore. Per accedere a quegli stessi articoli, le università di tutto il mondo devono pagare fatture ogni anno più salate. Non è un caso che il business degli editori scientifici viaggi col vento in poppa. Si stima che il mercato delle pubblicazioni scientifiche per il 2015 valga circa 25 miliardi di dollari, con una crescita del 4% all’anno e con uno straordinario margine di profitto di circa il 40% – più di quello ottenuto da giganti come Apple, Google o Amazon.
Il fatto è che il mondo dell’editoria scientifica funziona in un modo che la Deutsche Bank nel 2005 definiva «bizzarro» perché lo stato paga tre volte: per finanziare la maggior parte della ricerca, per gli scienziati che fanno il controllo di qualità di quanto pubblicato, la cosiddetta peer review (vedi box), e infine per comprare gli articoli usciti. Un vero affarone, tant’è che il Financial Times nel 2015 scrisse che questo è «il business che internet non è riuscita a uccidere».

Nel 1942 il sociologo della scienza Robert Merton teorizzò che la scienza moderna è ispirata a quattro principi: l’universalismo (i risultati scientifici sono indipendenti dallo status sociopolitico di chi li abbia ottenuti), il disinteresse (la scienza si fa per il bene di tutti), lo scetticismo organizzato (esiste un metodo critico per dare credibilità a un risultato scientifico) e infine il comunalismo, e cioè gli scienziati dovrebbero avere la proprietà collettiva dei loro risultati.
In altre parole, come dice l’articolo 27 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, «tutti hanno il diritto di partecipare liberamente alla vita culturale della comunità, godere dell’arte e condividere il progresso scientifico e i suoi benefici».

LA SCIENZA DI OGGI in realtà, anche se s’illude di farlo, non rispetta nessuno dei quattro principi. Ma l’ultimo è quello che forse fa più male: non è un caso che ci siano ben pochi scienziati che difendano il gigante editoriale olandese. Come dice il professore di educazione a Stanford John Willinsky, «in molti troveranno più semplice immaginare il danno causato da 28 milioni di articoli inaccessibili che quello dovuto alla perdita di 15 milioni di dollari perché Elsevier non li ha potuti vendere».

SECONDO LA GIOVANE neuroscienziata e programmatrice russa Alexandra Elbakyan che ha fondato nel 2011 Sci-Hub, frustrata dai paywall che separavano lei e la sua università dagli articoli di cui aveva bisogno durante il suo dottorato, è proprio questo il punto. «La scienza appartiene agli scienziati, non agli editori», dice.
Per avere un’idea di quello di cui stiamo parlando, un rapporto del 2015 della STM sulle pubblicazioni scientifiche, nel 2014 ce n’erano più di 28mila attive (in inglese), che collettivamente quell’anno hanno pubblicato più di 2 milioni e mezzo di articoli. Nei vari database internazionali (per ottenere l’accesso ai quali le università devono pagare), ci sono fra i 70 e i 100 milioni di testi scientifici. Una mole enorme di conoscenza la cui disponibilità è fondamentale per garantire il progresso scientifico. A Sci-Hub, infatti, i pdf degli articoli «illegali» li passano proprio gli scienziati che hanno potuto accedervi attraverso le loro stesse istituzioni.
Da qualche anno a questa parte, l’open access, ossia la possibilità di accesso libero alle pubblicazioni, sta guadagnando terreno. Ne esistono diversi tipi. Le riviste che sono totalmente open access (per pubblicarci, gli scienziati devono pagare una tassa che copre le spese di produzione) secondo le ultime stime sono solo circa il 10% del totale. Ma data la pressione politica sempre più forte – basti pensare che i programmi finanziati dai fondi europei Horizon2020, il principale programma scientifico europeo, sono obbligati a pubblicare in open access, e lo stesso commissario per la ricerca Carlos Moedas sta spingendo perché tutti gli articoli finanziati con denaro pubblico siano open access entro il 2020 – anche le riviste a pagamento hanno trovato formule ibride per garantire, sempre con un costo – dopo un po’ di tempo o a certe condizioni – il libero accesso.

QUELLO CHE NON FUNZIONA è proprio il modello su cui si basa tutto questo. All’inizio del secolo scorso le (poche) pubblicazioni scientifiche esistenti erano fogli con scarsa tiratura e (mal) finanziati dalle società scientifiche. Dopo la seconda guerra mondiale, ci fu un boom della ricerca, dei finanziamenti, del numero dei ricercatori. E come ben racconta in un lungo articolo il Guardian, la pubblicazione scientifica si trasformò in un business e nella moneta di scambio più importante del mondo della ricerca: più pubblichi nelle migliori riviste, e più finanziamenti riceverai. Un meccanismo teoricamente meritocratico ma che, nella pratica, consegna sostanzialmente a dei privati, gli editori, le carriere dei singoli ricercatori e le sorti di campi interi di ricerca.

Oggi è impensabile arrivare ad avere una carriera di successo in ricerca senza pubblicare sulle quattro o cinque migliori riviste del mondo, che si classificano grazie a parametri come l’impact factor (vedi box). Un meccanismo che spinge indirettamente i ricercatori, e chi li finanzia, a lavorare sul tipo di risultati che sanno avere maggiori possibilità di essere pubblicati, a scartare sistematicamente il «racconto» dei risultati negativi (con un danno enorme per la scienza, perché in molti proveranno a ottenerli senza sapere che qualcuno lo ha già fatto), e in generale a penalizzare la ricerca di base o meno di moda che, invece, per definizione, è quella che può essere più dirompente.

LA SENTENZA di New York non avrà conseguenze pratiche: Sci-Hub e Library of Genesis hanno sede in Russia, fuori dalla giurisdizione americana. Probabilmente spingerà ancora più scienziati ad aiutare questi siti a diffondere le ricerche. E soprattutto, come dice il biologo dell’Imperial College Stephen Curry a Nature, la loro immensa popolarità dovrebbe farci riflettere «sulla frustrazione di così tante persone sullo status quo delle pubblicazioni accademiche». Qualcuno, invece, non lo ha proprio capito, come il portavoce degli editori scientifici Matt McKay: «Sci-Hub non aggiunge nessun valore alla comunità accademica».

 

SCHEDA

Le prime due parole che imparano gli scienziati quando varcano le porte di una istituzione scientifica sono «peer review» e «impact factor», due concetti che li accompagneranno per tutta la loro carriera accademica. La «peer review», o revisione dei pari, è quel meccanismo attraverso il quale alcuni colleghi dello stesso ambito di ricerca, generalmente anonimi, vengono scelti dagli editor di una rivista scientifica (scienziati essi stessi) per valutare la qualità dell’articolo proposto per la pubblicazione. Gli editor fanno una prima scrematura (argomento, qualità scientifica, o qualsiasi altro criterio politico/editoriale della rivista) e ai revisori tocca sconsigliare la pubblicazione o chiedere agli autori di migliorare alcuni aspetti della loro ricerca per dare l’ok. L’«impact factor» di una rivista è invece un parametro che misura con quanta frequenza vengono citati in media gli articoli di quella rivista in un certo anno. Più che le «migliori» riviste indica quelle più «influenti»: è un meccanismo che si autoalimenta e dipende da molti fattori, uno solo dei quali è la qualità intrinseca del lavoro citato.

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