«Fondamenti della solidarietà». Nel titolo della breve dichiarazione pubblicata sul sito di Normative Orders, centro di ricerca dell’Università di Francoforte, si riconosce il tipico linguaggio del suo più illustre sottoscrittore, Jürgen Habermas, che la firma insieme a Nicole Deitelhoff, Klaus Günther e al suo erede filosofico Rainer Forst.

Si tratta di un appello contro l’antisemitismo, nervo scoperto della coscienza pubblica tedesca, sintomo di un «passato che non passa» e tema ricorrente negli interventi pubblici del grande filosofo. Giustamente si argomenta che le azioni di Israele non lo giustificano in nessun modo, tantomeno in Germania.

Ma la stampa italiana ha sottolineato soprattutto un passaggio. Per Habermas e gli altri l’attacco di Hamas del 7 ottobre ha dimostrato «l’intenzione di eliminare la vita ebraica in generale», mentre attribuire intenzioni genocidarie a Israele significa smarrire ogni criterio di giudizio. Se quello di Hamas è un «massacro», le modalità dell’intervento israeliano sono «oggetto di un dibattito controverso».

Si devono rispettare i principi di proporzionalità, evitare le vittime civili, mantenere aperta la prospettiva di una pace futura, ma comunque il contrattacco (nel testo inglese retaliation, rappresaglia) è prinzipiell gerechtfertigte, giustificato in principio.

Quello di genocidio è un concetto giuridico complicato, che presuppone l’intenzionalità e non è facilmente dimostrabile. Non è certo sufficiente una comparazione numerica (la proporzione fra le vittime si avvicina rapidamente a 10:1) né bastano le dichiarazioni esplicite di componenti del governo e delle forze armate israeliane.

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Certo che di rischio di genocidio parlano ormai apertamente autorevoli esponenti delle agenzie delle Nazioni Unite e da tempo organizzazioni umanitarie imparziali usano per Israele le espressioni «apartheid» e «pulizia etnica».

Così come non si può negare che anche quello in atto a Gaza sia un «massacro» e che le norme del diritto internazionale umanitario (proporzionalità, discriminazione dei non combattenti, divieto di starvation e di punizione collettiva, divieto di deportazione delle popolazioni), siano continuamente e pesantemente violate. Si arriva ad attaccare gli ospedali, mentre i bambini muoiono nelle incubatrici, i reparti di oncologia pediatrica collassano, nel puzzo delle ferite in suppurazione. Per non dire degli obblighi di Israele come potenza occupante.

Le espressioni asetttiche della dichiarazione rischiano di essere prese per una legittimazione di tutto questo. Del resto nella sua lunga carriera intellettuale Habermas – che è anche uno dei maggiori filosofi giuridici contemporanei – ha dimostrato una significativa ambivalenza nei confronti del diritto internazionale. Ha salutato la guerra del Golfo del 1991 come una sua riaffermazione e nel 1995 ha riproposto il progetto kantiano del diritto cosmopolitico perché «una moralizzazione immediata del diritto e della politica» condurrebbe a un «fondamentalismo dei diritti umani”.

Quattro anni dopo però sosteneva che la guerra della Nato alla Jugoslavia – priva di ogni autorizzazione delle Nazioni Unite, guerra di aggressione e dunque «crimine internazionale supremo» – aveva «buone motivazioni etiche».

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Nel 2003 il pendolo oscillava ancora: nel condannare la nuova guerra all’Iraq Habermas denunciava la ferita al diritto internazionale inferta dalla politica di George W. Bush, con la pretesa di imporre la democrazia col ferro e col fuoco. Aggiungendo che solo in un contesto giuridico si possono confrontare le diverse interpretazioni dei principi, anche di quelli universali; altrimenti resta solo «un etnocentrismo allargato a dimensioni generali».

Oggi questa centralità del diritto internazionale sembra di nuovo smarrita, come nel 1999. Allora Habermas parlava di «umanità» contro «bestialità»; c’è da chiedersi cosa ha pensato quando il ministro della difesa israeliano ha definito i palestinesi «animali umani».