Terézia Mora, frammenti d’esistenza nell’inquietante prigione dei propri sentimenti
L'intervista Parla l’autrice di «La metà della vita», per Gramma/Feltrinelli che sarà oggi a Roma e sabato a Milano nell’ambito di Bookcity. Muna e Magnus, la cronaca di un amore tossico in un romanzo che riflette anche sulla fine della Ddr
L'intervista Parla l’autrice di «La metà della vita», per Gramma/Feltrinelli che sarà oggi a Roma e sabato a Milano nell’ambito di Bookcity. Muna e Magnus, la cronaca di un amore tossico in un romanzo che riflette anche sulla fine della Ddr
L’amore che lega Muna a Magnus sembra non conoscere confini: da quando lo incontra a diciott’anni non avrà più la forza né il desiderio di separarsi da lui. E questo malgrado l’uomo alterni distanza, freddezza, violenza. Fino a un drammatico epilogo. In La metà della mia vita (traduzione di Daria Biagi, Feltrinelli/Gramma, pp. 396, euro 22), un romanzo su cui molto si è discusso, favorevolmente, lo scorso anno in Germania, la scrittrice Terézia Mora, nata in Ungheria e stabilitasi da tempo a Berlino, non mette in scena soltanto un «amore tossico», ma descrive anche l’intreccio di sentimenti, le contraddizioni, i fantasmi emotivi che popolano il desiderio di chi sceglie di amare anche quando questo può risultare fatale: uno sguardo critico, ma mai banale, sui ruoli di genere e sulla violenza maschile che caratterizza un romanzo irresistibile capace di evocare anche le macerie esistenziali che il mondo racchiuso dietro il Muro di Berlino ha lasciato dietro di sé. L’autrice presenterà La metà della vita oggi alle 18,30 alla Libreria Panisperna di Roma e sabato alle 16,30 al Castello Sforzesco di Milano nell’ambito di Bookcity.
Come definire il legame tra Muna e Magnus che è al centro del romanzo? Lei mette in discussione tutta la sua esistenza pur di essergli vicino, ma lui sembra pervaso da un desiderio di annichilimento: l’esito della storia ci dice che in fondo ha paura della vitalità della donna al punto da non arretrare di fronte a nulla: cosa nasconde questa sua attitudine di morte?
Lei è il primo a notare l’accostamento tra vita e morte che è presente nel libro. In effetti Muna rappresenta la vitalità, ma è devota, mentre Magnus è più distaccato dal mondo. Per quanto imperfetta sia Muna, come tutti noi, una cosa non si può dire di lei: non disprezza né sminuisce nessuno e non ha tendenze distruttive nei confronti del mondo esterno. Nel romanzo non do una spiegazione sul perché Magnus abbia in sé questa grande «pulsione di morte». E, del resto, non spiego nemmeno altro di Muna. Alcuni di noi sono così, a volte ci comportiamo come lei. Non le ho attribuito nulla che non penserei di fare in determinate circostanze. E lo stesso vale per lui.
La sensazione più sinistra che può provare il lettore è di scorrere le pagine di una storia che conosce, nel senso che, senza arrivare a violenza e morte, è drammaticamente comune conoscere coppie nelle quali alla donna è chiesto di «immolarsi» alla carriera o ai desideri dell’uomo. Le interessava indagare questa abitudine terribile alla sopraffazione che informa la cultura in cui siamo immersi?
Sì, è così. Da anni mi chiedo: quando è che succede? Da che momento ha inizio il fatto che le donne talentuose, intelligenti e laboriose non sono in grado di sviluppare i propri doni? Ciò che ho osservato (di questo non si parla nel libro, ma lo citerò comunque) è che inizia al più tardi quando si raggiunge la pubertà. Anche le ragazze cresciute con pochi cliché e aspettative perdono improvvisamente la fiducia in se stesse che fino ad allora avevano nei confronti del proprio corpo e della propria personalità. Per alcuni, inizia prima. Infatti, un bambino di quattro anni dell’asilo di mia figlia una volta suggerì di organizzare un concorso di bellezza in costume da bagno per ragazze. Certamente non lo ha fatto perché era un sociopatico nato. Lo dedusse come una norma dal mondo che lo circondava. O quando ripenso a come il mio primo e unico capo, un malvagio produttore cinematografico, ha cercato di sfruttarmi con ogni mezzo possibile. La distruzione della fiducia nelle mie capacità, sì, nel fatto che sono «abbastanza» come persona, ha giocato un ruolo centrale. Ti suggerisce che non sei «niente» mentre lui vuole «tutto» da te. Questo accade continuamente e non tutti possono sfuggire a tutto ciò. Alcune di noi devono affrontare gli sfruttatori per tutta la vita. Se poi prendi le decisioni sbagliate nelle tue relazioni, magari ti senti attratta dalle cose oscure e distruttive (perché potresti sentirti «a casa» con esse), allora puoi facilmente ritrovarti in una situazione in cui sei molestata da tutte le parti.
Come ha plasmato le figure di Muna e Magnus che sembrano costruiti l’una all’inverso dell’altro: lei con il sovrapporsi di elementi e vicende, lui quasi in sottrazione…
Mi ci sono voluti degli anni. Combatto sempre molto per i protagonisti delle mie storie e inizio sempre da un punto in cui non li capisco, dove non posso essere d’accordo con loro, e poi provo a raccontare la storia del percorso verso una maggiore comprensione. La letteratura esamina la condizione umana. Ho combattuto a lungo per ritrarre Muna come ambivalente e per mostrarle solidarietà. Non è stato facile. Anche se tutto quello che fa è stato inventato da me, tutte le frasi che dice sono state scritte da me, nonostante tutto ciò, il mio atteggiamento nei suoi confronti era plasmato da una misoginia interiorizzata, del tipo che acquisiamo quando cresciamo in società misogine. L’ho incolpata per essere stata trattata male. Naturalmente abbiamo sempre la nostra responsabilità e non possiamo restare passivi e sperare in un salvataggio. Tuttavia, penso di imputare ai miei personaggi più gli errori delle donne che quelli degli uomini. Altrimenti rinuncerei fin dall’inizio a qualcuno come Magnus, non proverei a liberarlo dal suo incantesimo malvagio attraverso l’amore nella vita reale come in una fiaba. Muna, tuttavia, ci prova. E più ci prova, più lui scompare.
Lo sfondo ci parla della stagione della caduta del Muro di Berlino, del «prima» e del «dopo». L’eco nelle vicende dei protagonisti è flebile, anche se sembra avere un portato più profondo di quanto siano disposti ad ammettere, come il passaggio in cui apprendiamo che il padre di Magnus lavorava per la Stasi…
Naturalmente non è un caso che ciò compaia nel libro. Essere liberata da una dittatura in giovane età, ma conservarne ancora un ricordo vivido, ha lasciato il segno nella mia vita. Sono grata di non aver trascorso lì un solo giorno in più di quanti ne ho trascorsi, ma sono anche grata di poter ricordare. Poiché purtroppo esiste una sorta di folklore su questi ricordi, ho cercato solo di accennare a tale retroscena rispetto alle vicende dei personaggi. Conosco persone della mia generazione che sono state così traumatizzate dal periodo trascorso nella Ddr, e soprattutto nell’esercito della Ddr, l’Armata popolare nazionale (Nva), che hanno perso per sempre parte della loro umanità, soffrono di un disturbo da stress post-traumatico permanente. Questo non è però il motivo per cui trattiamo male i nostri partner o sfruttiamo le persone. Lo usiamo solo per sfuggire alle nostre responsabilità. L’effetto di queste esperienze su di noi è indubbiamente presente, ma non è una scusa per tutto ciò che facciamo di sbagliato.
Anche il rapporto di Muna con la madre sembra dirci qualcosa della vita nella Ddr: la relazione tra le due donne mette in scena l’evoluzione di una società?
In realtà non ci avevo pensato in questo caso. Ho dovuto prendere una decisione riguardo al contesto familiare. È così: qualsiasi persona può finire in una relazione in cui viene trattata male. Anche chi è cresciuto in una famiglia armoniosa in cui entrambi i genitori sono vivi, nessuno è dipendente e i rapporti sono meravigliosi. Ho scelto questa relazione madre-figlia perché era la più facile per me. I personaggi senza madre e senza padre (anche se i genitori sono ancora vivi) mi sono vicini. Personaggi che devono farcela da soli, caratterizzati dall’abbandono. Ciò può derivare (proprio come la dipendenza) dagli effetti distruttivi della vita sotto una dittatura o nel capitalismo, e via dicendo, ma può anche verificarsi per altri motivi. Siamo tutti discendenti di persone traumatizzate.
I personaggi delle sue storie sembrano prigionieri di situazioni dalle quali non riescono ad uscire: è una condizione che le interessa raccontare?
Sì, è la mia «cifra». Mi colpisce chi è intrappolato dalle circostanze, chi è lasciato a se stesso (nella propria immaginazione come nella realtà). Vorrei trovare una via d’uscita scrivendo o come facevo da bambina (e faccio tuttora), leggendo. Ecco perché ci raccontiamo storie. Per esplorare alternative. Come potrebbero essere le cose. A volte sono storie dell’orrore, versioni peggiori del nostro stesso destino, a volte sono storie di successo, migliori di quelle con cui abbiamo a che fare. Come europea dell’Est, conosco meglio l’arduo processo del doversela cavare da sola. Ma so qualcosa anche della tenacia, e scrivere un romanzo ne richiede molta. E altrettanta speranza. Chi scrive non può che essere fiducioso.
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