Elezioni americane: affari, politica e una civil war prefigurata
Diario elettorale I due candidati in pectore continuano ad essere in parità secondo i sondaggi (comunque molto prematuri e di dubbia attendibilità) ed entrambi affrontano difficoltà
Diario elettorale I due candidati in pectore continuano ad essere in parità secondo i sondaggi (comunque molto prematuri e di dubbia attendibilità) ed entrambi affrontano difficoltà
Traffico intenso a Mar A Lago questa settimana dove il via vai di politici, nazionali ed esteri, ha posizionato la sgargiante reggia trumpista in Florida più che mai come una sorta di Casa bianca parallela. Da un lato l’inquilino della villa alabastrata simil-moresca è il cento di gravità permanente di un Gop ormai fermamente in pugno all’ex presidente. Lo dimostra l’ultimo pellegrinaggio alla sua corte da parte del house speaker, Mike Johnson, accorso a fare l’ennesimo gesto di sottomissione al leader maximo.
Ufficialmente il presidente della maggioranza repubblicana alla Camera era in Florida per discutere un progetto di legge a tutela della “integrità delle elezioni”. Il decreto imporrebbe ad ogni elettore l’obbligo di esibire documenti di cittadinanza ai seggi per porre rimedio al problema inesistente degli stranieri che votano illegalmente. Il fenomeno non sussiste se non nella narrazione dei “vasti brogli” e delle “elezioni rubate” ovvero la “big lie” con cui i repubblicani mantengono sull’orlo della crisi di nervi il proprio elettorato. (La cittadinanza è peraltro già, per legge, un ovvio requisito al voto.)
La protezione degli scrutini è dunque stato semplice pretesto teatrale e copertura per il vero motivo della genuflessione di Johnson: ottenere protezione dall’ennesimo attacco al suo indirizzo dalla fazione di parlamentari che fanno capo a Trump. Specificamente, Johnson è nel mirino di Marjorie Taylor Greene, mastino Maga che minaccia di far fare a questo speaker la stessa fine del predecessore, Kevin McCarthy, trombato dalla fronda oltranzista per non essersi mostrato abbastanza intransigente con la controparte democratica.
La colpa specifica di Johnson sarebbe di contemplare un possibile compromesso sugli aiuti all’Ucraina, in contravvenzione al diktat di ostruzionismo totale nell’anno elettorale. Taylor Greene aveva inviato una lettera di diffida ufficiale (secondo nuove procedure imposte dai trumpisti, un singolo deputato può chiedere la sfiducia al leader del partito). Per ora Johnson sembra tuttavia essere stato graziato da Trump che ha ricambiato il suo pellegrinaggio a Canossa con l’encomio (traduzione: il mastino per ora rimane al guinzaglio.)
Restano ignote le condizioni eventuali poste a Johnson, ma non vi sono dubbi sulla linea di comando, sempre più ferra imposta da Trump. E Johnson non è stato l’unico a confermarlo. Lunedì scorso a Mar A Lago c’era anche nientemeno che David Cameron, ex premier, ora ministro degli esteri britannico. In missione americana come emissario atlantista venuto a perorare la ripresa dell’assistenza militare americana a Kiev, Cameron ha tenuto incontri a Washington, ma ha soprattutto discusso la questione con Trump – tecnicamente privato cittadino ma di fatto colui che impone l’agenda parlamentare, in questo caso il rifiuto di porre un voto all’ordine del giorno che quasi certamente approverebbe gli aiuti.
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Elezioni Usa, l’oligarchia serra i ranghiIl veto di Trump sarebbe basato sul presunto isolazionismo, ma ancora una volta ha soprattutto a che vedere con tattiche per intralciare il cammino elettorale del presidente avversario. Si profila quindi di fatto una paradossale amministrazione ombra che persegue politiche e perfino rapporti diplomatici paralleli e contrapposti a quelli della Casa bianca.
Nel mondo di Trump la politica è inoltre inestricabilmente commista agli affari. Ci siamo occupati qui a proposito degli investimenti nei Balcani del rampante genero dell’ex presidente, Jared Kushner. Il Washington Post ha indagato ulteriormente su di un personaggio emblematico della politica estera “freelance” del clan Trump. Richard Grenell, fedelissimo Maga, provocatore da talk show in stile Bannon, ex ambasciatore in Germania e inviato in Serbia, è dato come futuro segretario di stato in un’ipotetica seconda amministrazione Trump. Intanto si è adoperato per portare a buon fine gli accordi di Kushner a Belgrado e Tirana.
Grenell è definito “mio emissario” da Trump e si muove nel mondo come chargé d’affaires del governo ombra trumpista. Di recente è stato in Guatemala per una serie di incontri con esponenti della destra che ha tentato di ostacolare l’insediamento del presidente eletto Bernardo Arévalo. Un caso eclatante di interferenza col legittimo governo di Washington, dato che contemporaneamente Arévalo era sostenuto da Biden ed ha ricevuto la visita della vicepresidente Kamala Harris.
I due candidati in pectore continuano ad essere in parità secondo i sondaggi (comunque molto prematuri e di dubbia attendibilità) ed entrambi affrontano difficoltà. Trump per tutta la settimana è stato sulla difensiva man mano che gli stati rossi implementano restrizioni sempre più severe ed impopolari sull’aborto.
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Trump prende posizione: «Sull’aborto decidano gli stati»Per Biden invece sono stati una brutta notizia gli ultimi su di un’inflazione che si dimostra più ostica del previsto. I mercati non hanno affatto gradito e se la situazione non cambierà presto, l’economia potrebbe rivelarsi un tallone d’Achille per il presidente già alle prese con indici di gradimento storicamente bassi.
Questa settimana a New York avrà inizio il processo a carico di Trump sui contributi illeciti a Stormy Daniels. I 130000 dollari versati alla porno star per assicurarsi il silenzio su un presunto rapporto nel 2015 con l’allora candidato Trump costituirebbero un illecito di finanziamento politico. È il “minore” dei quattro processi a carico di Trump, ma il primo che potrebbe produrre un verdetto prima delle elezioni. In ogni caso è storico come primo processo penale a cario di un ex presidente.
Nei cinema USA intanto esce un film che tematicamente cattura forse meglio di ogni altro l’aria che tira nell’inconscio del paese. Civil War è ambientato in un futuro prossimo non precisato, in un’America dove le divisioni hanno portato a una sanguinosa seconda guerra fratricida. I fatti avvengono durante il “terzo mandato” di un presidente che nei discorsi usa forme idiomatiche che ricordano molto quelle di un certo populista autoritario….ogni riferimento sarà pure casuale, fatto sta che la trama non va a finire bene.
Non è chiaro se il film di Alex Garland sia inteso più come scongiuro, augurio o prefigurazione. Intanto lo scenario di fantapolitica apocalittica del film rischia di essere superato dalla distopica escalation del conflitto mediorientale.
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