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«Dove sono?». Il Cile se lo chiede ancora

Il ritratto di Salvador Allende sfila a Santiago nel 50mo anniversario del golpe che portò al potere il generale Pinochet foto ApIl ritratto di Salvador Allende sfila a Santiago nel 50mo anniversario del golpe che portò al potere il generale Pinochet – foto Ap

11 Settembre 1973-2023 A Santiago il cinquantenario del golpe fascista nel ricordo di Allende e dei desaparecidos. L’omaggio a Victor Jara e il potente «mai più» gridato attorno al palazzo presidenziale

Pubblicato circa un anno faEdizione del 12 settembre 2023
Susanna De GuioSANTIAGO DEL CILE

Il presidente Boric ha partecipato brevemente alla tradizionale manifestazione verso il cimitero generale di Santiago, che si svolge ogni 11 settembre per ricordare il colpo di Stato del 1973 contro il governo di Salvador Allende. Ha sfilato insieme alle organizzazioni di familiari delle vittime della dittatura perché, come ha dichiarato poi su X, «sono convinto che grazie alla loro instancabile lotta per la verità e la giustizia siamo qui oggi». Un gesto simbolico, come aprire il passaggio della manifestazione in via Morandé, accanto alla Moneda, dove nel 1973 uscirono dopo il bombardamento i membri del GAP, la scorta di Allende, a cui è stato reso omaggio. E altrettanto rituale è stata la sua condanna della violenza, rivolta ai gruppi di manifestanti che hanno tirato pietre contro la Moneda, vandalizzato il memoriale dei Carabineros e la tomba di Jaime Guzmán, ideologo del progetto neoliberale imposto da Pinochet e tuttora vigente. La condanna della violenza «da qualsiasi parte venga» è parte del discorso ufficiale di Boric dal primo giorno di governo, ma è una posizione complicata da sostenere quando la repressione e la violenza strutturale sono un’esperienza quotidiana nel Paese.

A 50 ANNI DAL GOLPE non c’è consenso da parte della classe politica nel condannare la rottura del patto democratico imposta dall’esercito nel 1973: è chiaro che per la destra cilena si trattò di un male necessario per evitare il marxismo, e difendere gli interessi di una élite che non accettava di vedersi togliere il potere dal governo dell’Unidad Popular. Il messaggio oggi non è cambiato, il Cile è un Paese con enormi diseguaglianze sociali su cui si fonda il potere economico di un ristretto numero di famiglie che si riconoscono per il cognome, e la profonda rivolta sociale che nel 2019 pretendeva di rompere con questo stato di cose non ha raggiunto l’obiettivo.

Ma ci sono forme di resistenza che si sostengono nel tempo, come la ricerca di verità e giustizia per le persone uccise e fatte sparire dal regime militare da parte dei familiari. Negli ultimi mesi sono finalmente giunti a sentenza definitiva decine di casi di delitti di lesa umanità, e nonostante i media nazionali trascurino queste notizie, la Corte Suprema sta condannando a pene carcerarie effettive membri dell’Esercito, Carabineros e alti funzionari della Dirección de Inteligencia Nacional (DINA) per il sequestro e l’omicidio di militanti del Movimiento Revolucionario de Izquierda (MIR) e di altri movimenti di sinistra.

MOLTI DI QUESTI CASI appartengono all’Operazione Colombo, un piano montato dalla dittatura nel 1975 per coprire le violazioni dei diritti umani, di fronte alle crescenti denunce internazionali. I media mascherarono la sparizione forzata di 119 oppositori politici pubblicando notizie false di scontri e purghe interne alle organizzazioni di sinistra.

Nelle ultime settimane sono stati analizzati anche altri casi emblematici, come quello dei sequestratori e assassini di Victor Jara e Littré Quiroga, torturati insieme nello Stadio del Cile a Santiago nei primi giorni di dittatura, e del sequestro e omicidio del diplomatico spagnolo della Cepal, Carmelo Soria nel 1976. Nel primo caso, uno degli ex militari condannati si è suicidato prima di essere portato in carcere, mentre altri due si sono dati alla fuga. Nel caso Soria, tre dei sei agenti della DINA condannati sono ancora profughi, in libertà.

La transizione in Cile è stata all’insegna del voltare pagina, guardare il futuro e superare le divisioni per il bene del Paese. Ma non c’è riconciliazione sociale senza verità e giustizia. Al cimitero generale, a visitare la tomba di Victor Jara c’erano tante persone, la lapide era coperta di fiori rossi e quando qualcuno ha tirato fuori una chitarra, tutti si sono messi a cantare, anche gli incappucciati, ricordando «il martello della giustizia, la campana della libertà e una canzone di pace» dell’amato cantautore amico di Allende.

IL GOVERNO BORIC ha inaugurato il 30 agosto un “Piano nazionale per la ricerca e la giustizia” per gli oltre mille casi di desaparecidos che non sono ancora stati ritrovati: secondo i dati del ministero della Giustizia, del totale di 1469 vittime solo 307 sono state finora identificate. C’è ancora tanta strada da fare, sebbene ci siano stati passi avanti nella giustizia, soprattutto dagli anni Duemila, dopo l’arresto di Pinochet a Londra, quando la Corte Suprema iniziò a giudicare i casi di violazione dei diritti umani protetti fino a quel momento dalla Legge di Amnistia del 1978. In parte si deve alla mancanza di volontà politica dei governi democratici nel mettere a disposizione tutti gli strumenti dello Stato per fare chiarezza, in parte è perché in Cile il patto di silenzio delle forze armate resta inossidabile. Ancora non sono chiari i nomi dei piloti alla guida degli aerei che bombardarono la Moneda, solo per fare un esempio. I rapporti Rettig e Valech prodotti dalle commissioni per la verità create negli ultimi trent’anni sono incompleti, il secondo è protetto da segreto fino al 2054 e l’intenzione di Boric di pubblicarne gli archivi ha scatenato subito le polemiche di diversi politici di destra.

LA DOMANDA «DOVE SONO?» che è apparsa sui numerosi cartelli con le foto dei desaparecidos, alla manifestazione a Santiago (celebrata domenica 10 perché l’11 settembre non è festivo in Cile), è la stessa della canzone inventata dalle madri, mogli, sorelle che cominciarono a cercare i propri cari durante la dittatura.

La cueca sola che interpretarono per anni con la domanda costante «dove ti tengono?» riprende un genere musicale folclorico, che si balla in coppia, ma che loro danzavano da sole in segno di protesta, con la foto del familiare assente appuntata al petto. La maggior parte di queste donne è morta senza ottenere risposta, ma la loro cueca sola è riuscita a denunciare l’esistenza delle sparizioni forzate già negli anni Settanta. Hanno partecipato alla campagna del “No” al plebiscito per il ritorno della democrazia, e perfino Sting ha cantato la loro instancabile ricerca.

OGGI IL SIMBOLO e il rituale della cueca sola viene ripreso da un collettivo che si occupa di rendere pubblica e condividere la memoria, perché non sia un compito delegato solo alle famiglie direttamente colpite dal lutto, ma una responsabilità collettiva. Questa è l’unica garanzia di non ripetizione, quel “nunca más”, il «mai più», gridato da migliaia di donne che domenica sera si sono riunite attorno al palazzo dela Moneda con una candela in mano, in una immensa e potente manifestazione indetta per ripudiare una dittatura ancora troppo vicina e dolorosa.

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