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Perché l’11 settembre cileno ci riguarda ancora

foto allende moneda 197311 settembre 1973: Salvador Allende e la sua scorta all'uscita del Palazzo della Moneda – Luis Orlando Lagos Vázquez /Keystone /Getty Images

1973-2023 Il golpe orchestrato dagli Stati uniti sconvolse il mondo, e non bisogna dimenticare che dopo i consiglieri della Cia e gli istruttori militari del Pentagono arrivarono a Santiago, chiamati da Pinochet, i Chicago Boys, i campioni della scuola economica iperliberista di Milton Friedman

Pubblicato circa un anno faEdizione del 9 settembre 2023

Il primo 11 settembre che stravolse le sorti del mondo non fu quello del 2001, pur epocale che, con l’abbattimento delle Torri Gemelle, colpì al cuore gli Stati uniti, rimasta l’unica super potenza dopo l’implosione dell’Urss.

Fu quello del 1973 in Cile con il golpe militare orchestrato dalla Cia e dal generale Augusto Pinochet contro il governo legittimo di Unidad Popular guidato dal presidente Salvador Allende in carica dal 1970.

Non proponiamo una lettura da “nemesi”, ma accadde prima delle Twin Towers e continuare a sottovalutarne la portata mondiale vuol dire relegare in un angolo uno stravolgimento violento e sanguinoso che segnò una ferita profonda, che apparve irreversibile nei rapporti internazionali. Non solo nell’intero continente latinoamericano – con lo sviluppo violento e militare elaborato dal Plan Condor con i golpe che seguirono in Argentina, Uruguay e Bolivia – ma anche in occidente, in Europa e segnatamente in Italia, condizionando pesantemente le strategie della sinistra.

Con quel golpe gli Stati uniti, con il protagonismo del presidente Richard Nixon e del segretario di Stato Henry Kissinger, nel mondo ancora diviso dai blocchi, riaffermavano con crudeltà che l’America latina restava il loro «cortile di casa». Proprio mentre la presidenza Usa avviava mosse strategiche soprattutto in Asia, necessarie alla sua primazia: nel ’74 lo storico incontro con Mao nel momento della maggiore frizione tra pechino e Mosca.

Poi nel ’75 cominciò il ritiro dal Vietnam dopo gli accordi di Parigi con la leadership vittoriosa nordvietnamita e vietkong: la sconfitta evidente di una guerra d’aggressione inventata di sana pianta dagli Usa e costata 2 milioni di morti ai vietnamiti. Gli Stati uniti, per così dire, si accontentavano di quello che avevano realizzato in Indonesia: il massacro nel 1965 di mezzo milione di comunisti e il controllo del più grande paese musulmano al mondo, un “esempio” esportabile in altre parti del globo irrequieto verso il loro dominio.

Anche se nel ’67 Che Guevara veniva ucciso in Bolivia, l’America latina, così prossima agli interessi economici e politici Usa, all’inizio degli anni Settanta rappresentava un rischio. Tanto più in Cile, dove un governo democratico guidato da un socialista avviava riforme sociali radicali coinvolgendo le classi subalterne.

L’esempio indonesiano tornava utile: non a caso “Giakarta” fu la scritta che comparve sui muri di Valparaiso già nella notte del golpe militare. La Moneda bombardata, il presidente Allende fisicamente eliminato, i leader della sinistra, tutti, dai socialisti ai comunisti al Mir e al Mapu, torturati, uccisi, deportati e fatti sparire. Si poteva quindi riproporre la stessa scelta nelle crisi argentina e uruguayana con altri due sanguinosi golpe.

Il golpe militare in Cile apriva la strada allo stravolgimento di tutto quello che Unidad Popular – mettendo in discussione democraticamente il neoliberismo e dando un ruolo centrale, oltre al governo e allo Stato, anche ad una miriade di organismi dal basso – stava costruendo come base per una transizione socialista.

Così dopo i consiglieri della Cia e gli istruttori militari del Pentagono arrivarono a Santiago, chiamati da Pinochet, i Chicago Boys, i campioni della scuola economica iperliberista di Milton Friedman. Questo fece del golpe cileno un vero e proprio modello violento per imporre il neoliberismo, attraverso la privatizzazioni di tutti i settori dell’economia e dei servizi e la flessibilità del lavoro instaurate grazie alla forza militare.

Alla luce di quella esperienza vale la pena di nutrire dubbi sulla natura dell’attuale dibattito che vorrebbe le democrazie contrapposte alle autocrazie.

L’esperienza cilena e la sua sconfitta non potevano non influire sulla riflessione della sinistra. Purtroppo in Italia questa portò al compromesso storico nella sua versione più politicista.

Il Pci propose un patto non con l’ala sinistra – come nel Cile di Unidad Popular – ma con tutta la Democrazia cristiana, affidando ai socialisti un ruolo certo decisivo ma comunque di forza “terza”. Fu l’inizio della rivalsa anticomunista e strumentale di Craxi e della sua ascesa.

Su un altro versante gli avvenimenti cileni funzionarono anche da acceleratore delle scelte fallimentari e nefaste delle frange estreme armate – cinque anni dopo fu ucciso Moro. Stentava a farsi ascoltare chi, come noi, ma anche la sinistra socialista lombardiana, rivendicava anche per l’Italia l’alternativa di sinistra, un’alleanza popolare con un governo delle sinistre unite.

Ma persino in quei mesi non tutto fu negativo. Un’ampia parte della popolazione fu immediatamente coinvolta nell’accoglienza degli esuli cileni. Il mondo e la sua violenza ci entrò nelle case che si aprirono.

Cinquanta anni dopo le ferite di quell’11 settembre sono ancora aperte. Gabriel Boric, che si richiama all’esperienza di Allende, non ha fatto in tempo a celebrare la sua vittoria elettorale che ha subito lo smacco della sconfitta nel referendum che avrebbe dovuto cambiare la Costituzione, e ora ha difficoltà anche nel ricostruire la vita delle migliaia di desaparecidos di quella sanguinosa repressione, mentre una destra nostalgica addirittura rivendica Pinochet. E qui in Italia è arrivata al governo un’alleanza di estrema destra con una premier che non ha mai rinnegato le sue radici fasciste.

Insomma la stagione cilena ci riguarda.

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