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«Club Zero», un’identità nella privazione

«Club Zero», un’identità nella privazioneUna scena da «Club Zero» di Jessica Hausner

Cannes 76 «Club Zero», il film di Jessica Hausner in concorso, tra problemi alimentari e bisogno di riconoscimento. La fragilità dei giovani, la manipolazione, i genitori assenti

Pubblicato più di un anno faEdizione del 23 maggio 2023

Il successo assoluto del fine settimana è stato il video che qualche anonimo regista ha rilanciato su Twitter ottenendo in poche ore oltre due milioni di visualizzazioni. Il contenuto? Una sfuriata di Thierry Fremaux, il direttore del festival, contro l’agente di polizia municipale che lo aveva fermato perché stava andando in bici sul marciapiede davanti al Carlton – cosa proibitissima. Nella domenica della bolla festivaliera non si parlava d’altro. Il fine settimana è passato, si ricomincia guardando alla Palma d’oro con la prima giornata di sole che ha permesso finalmente ai festivalieri di sfoggiare gli outfits d’occasione. Nella classifica redatta ogni giorno da «Screen» con le stelline dei critici internazionali il film in testa è finora Anatomie d’une chute, il noir processuale di Justine Triet (in Italia uscirà con Teodora), indagine su una coppia la cui moglie è accusata di avere ucciso il marito.

Ma che aria tira sulla Croisette meteo a parte? Le previste «tempeste» annunciate (scioperi, interruzioni di corrente ecc), con l’eccezione delle polemiche iniziali intorno ai film di Maiwenn e Catherine Corsini, non si sono per ora verificate, ma gli applausi a scena aperta alle frasi di Jean-Luc Godard, nel documentario Godard par Godard, proiettato per l’evento-omaggio al regista, quando chiede l’annullamento del festival perché sconnesso dalla realtà rivelano che lo scontento è diffuso. Lì era il ’68, qui la Francia del 2023 che esce da mesi di scioperi, tensioni, proteste contro le scelte economiche del governo Macron, represse con violenza, tagli visibili anche nella struttura festivaliera.

Il concorso ieri ha presentato due opere di autori entrambi parte della storia del festival, Jessica Hausner e Aki Kaurismaki, quest’ultimo con Fallen Leaves, il film più dolcemente politico visto finora nella sua libertà di non dover rivolgersi a dispositivi pretenziosi, che non siano la cifra «semplice» del regista per affermare la sua originalità. Austriaca, con la produzione di Ulrich Seidl, Jessica Hausner, che si è rivelata qui con Lovely Rita (2001), e era in gara anche col precedente Little Joe (2019) lavora su storie che mettono al centro il controllo, la manipolazione emozionale, le crepe che si producono nelle relazioni tra gli individui e il mondo. Cosa accade quando qualcuno intuisce le debolezze altrui, ne esalta i bisogni, le rende una chiave d’accesso per il proprio potere? Nei materiali stampa la regista dice: «Mi interessa il modo in cui la nostra società delega le sue responsabilità, in questo caso i genitori agli insegnanti: si può avere fiducia completa in loro o si deve sempre vigilare?».

COSA RACCONTA dunque Club Zero? Protagonista è una giovane docente, la signorina Novak (Mia Wasikowska) chiamata a insegnare in una scuola privata, di quelle frequentate da ragazzine e ragazzini ricchissimi con genitori molto indaffarati, una sorta di educazione alimentare che lei definisce: «Alimentazione responsabile». È gentile, dolce, disponibile ogni week-end non avendo famiglia, coi suoi modi vellutati conquista allieve e allievi che in questa idea di alimentarsi «responsabilmente» vedono una risposta possibile ai loro bisogni di impegnarsi per l’ambiente, per salvare il pianeta. Fin qui tutto bene se non fosse che la donna ha un piano assai più pericoloso, e lo attua facendo leva non solo sulle utopie confuse di quelle giovanissime e giovanissimi ma soprattutto sulle loro fragilità, spingendoli pian piano a smettere di mangiare del tutto, cosa in alcuni casi non difficile visti latenti o evidenti anoressie e bulimie.

Per ognuno e ognuna di loro trova come insinuarsi, sia debolezza, solitudine, bisogno d’amore, di attenzione, di farsi accettare, e persino la necessità di punti per la borsa di studio (nel caso del povero del gruppo che inizialmente le resiste) a fronte di famiglie distratte o fin troppo accondiscendenti dove la sola a rendersi conto della situazione è proprio la madre del ragazzo non ricco, che come tale rimane inascoltata.

 

Club Zero, come zero calorie, è una sorta di setta i cui gli adepti non devono mangiare. Nulla, mai. Eppure non è semplicemente un film sui problemi alimentari, anoressia e bulimia, questo anche se Hausner ne disegna con precisione i passaggi, dall’euforia al ricatto sentimentale, visto che comunque il cibo e la sua negazione è l’arma con cui l’insegnante attua il proprio controllo sugli allievi. Senza enfasi, in una sorta di rituale che piano piano li allontana dal resto del mondo, dagli altri compagni, dalle famiglie.

La messinscena geometrica, fredda, ripetitiva raggela le emozioni negli interni solitari, nelle camerette adolescenti, nella mensa della scuola dove con precisione il gruppetto dei cinque che la segue, tre ragazze e due ragazzi, impara a far finta di mangiare a mensa: piccoli pezzi, lunghe pause, porzioni sempre più ridotte, intervalli di masticazione infiniti, via la carne e i dolci, mono-dieta solo verdura, una patata tagliata a pezzetti piccolissimi. Ogni privazione dichiara una nuova sfida.

A PARTIRE da qui il film illumina una contemporaneità estremamente delicata, che si annoda in quel bisogno di identità, specie dei più giovani – in questo caso appunto fare parte di una setta e condividerne il segreto – in cui si mescolano l’impegno, la paura del futuro, la confusa necessità di prendere le distanze da quei genitori troppo amici che pure controllano o quantomeno indirizzano le loro vite.

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Il vampirismo dei sentimenti
Lo sguardo della regista in questo suo teen-movie appare critico specie sugli adulti che sono estremamente corretti, attenti alla forma, vicini ai figli e al tempo stesso incapaci di vederli, di capire cosa sta accadendo, di mettersi in discussione assumendosi una qualsiasi responsabilità. Quella dei ragazzi è una forma di ribellione nella quale il rifiuto del cibo dichiara la propria indipendenza dall’universo costruito per loro dalle generazioni precedenti, e l’essere onnipotenti su di sé e sul proprio corpo, che li fa sentire più forti, al di sopra degli altri. La loro «religione alimentare» che nel suo fanatismo potrebbe alludere a qualsiasi altra religione, appare quasi una soluzione al bisogno identitario di essere riconosciuti che attraversa il nostro presente, un bordo pieno di ambiguità e di rischi.

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