La tua voce, la tua cadenza, la tua inflessione dialettale. In fondo, la tua cultura. Ecco, metti tutto questo da parte, perché non ci serve. Abbiamo bisogno di un linguaggio chiaro, anonimo, che “suoni bene”. Che tranquillizzi, che non “spaventi”. Abbiamo bisogno del linguaggio dell’americano medio. Bianco.

La notizia rimbalza da qualche giorno sui siti che si occupano di tecnologia (difficile attribuire la primogenitura, forse analyticsinsight, subito ripreso con più elementi dalla sezione dedicata del The Guardian) anche se l’informazione ha a che fare con tante altre cose. Con la politica, con l’etica. Con i “futuri possibili”, con le distopie.

In pillole si tratta di questo: una start up della Silicon Valley – e dove altro se no? -, la Sanas ha reso pubblico – ed è in vendita – il suo software, addestrato dall’intelligenza artificiale: serve a trasformare la voce di chi risponde ai call center in un suono più accettabile dall’utente medio statunitense.

Serve a trasformare il timbro di voce di quelle migliaia di persone che rispondono dal Messico, da Haiti, dal Kenya, dalle Filippine, pagate un dollaro e mezzo all’ora. In modo che la loro tonalità, il loro lessico sia quello al quale è abituato chi chiama da Denver, da Boston, da Dallas. E quando telefona perché la sua lavatrice non funziona, il suo pacco Amazon è in ritardo o perché non riesce a vedere il suo programma preferito sulla tv via cavo, si sente rassicurato quando sente parlare l’interlocutore in perfetto americano. Non in inglese – s’è scoperto anche questo – ma proprio in “americano standard”. Che, ovviamente, deve essere lontano anche dallo slang delle periferie dei neri.

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La start up – che ha raccolto qualcosa come trentadue milioni di dollari per partire e 5 milioni e mezzo di dollari solo su questo progetto – sostiene che con un duro lavoro di apprendimento, di machine learning, già adesso è in grado di far sembrare davvero più “da bianchi” la voce degli operatori. L’ha già sperimentato, insomma, su più di mille dipendenti filippini. Che, a suo dire, per ora hanno ancora la possibilità di decidere se attivare “il meccanismo” o rispondere con la loro voce. Inutile aggiungere – anche se non si conosce il nome delle aziende usate per testare il mercato – che gli imprenditori si sono dichiarati ultra entusiasti. E tutto fa capire che la possibilità di alterare il proprio timbro al microfono non sarà più affidata alla scelta del dipendente.

Per chi sa di film, anche di film mainstream, è esattamente la storia di Cassius, in Sorry To Brother You, di quattro anni fa: un addetto nero al telemarketing al quale un amico, consigliò di sforzarsi di parlare come un “bravo texano”. Perché avrebbe aumentato le vendite (cosa che poi accade nella pellicola).

A chi gli faceva notare che in fondo il progetto parte da una premessa razzista – ci sono lingue più importanti di altre -, Sharath Keshava Narayana – uno dei fondatori di Sanas – risponde mettendo insieme un po’ di storia personale e un po’ di frasi che siamo abituati a leggere da tempo: ma quale razzismo? Per anni, prima di mettermi in proprio, ho fatto il dipendente dei call center, sono amico di molti di loro. So come le persone ti trattano se non sentono parlar bene in americano. “E poi, certo, può essere sbagliato” ma il mondo va così.

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Va così: va che i servizi agli utenti di tutte le imprese non sono mai gestiti nel paese dove hanno sede ma in quelle nazioni dove il personale costa dieci, venti volte meno. Va che gli acquirenti del “primo mondo”, dell’Occidente di fronte al mal funzionamento degli acquisti non se la prendono col marchio, col logo ma con chi risponde al telefono. Che non è solo un comportamento degli americani, beninteso, visto che anche le compagnie telefoniche italiane, quando si prova a contattarle ai numeri verdi, rispondono con una segreteria che “avverte”: “L’operatore potrebbe non rispondere dall’Italia, se volete un operatore italiano attenda ancora…”.

I sociologi, anche quelli interpellati sul caso Sanas, parlano di “neutralizzazione del linguaggio”. Che sancirebbe l’”indifferenza per le differenze”. Dove le particolarità, le caratteristiche, dove i tratti culturali di chi risponde al telefono non contano. Devono uniformarsi al linguaggio dominante. Colonialismo della voce.

Una pretesa spiegabile forse con parole meno accademiche: l’operatore del call center quasi sempre ha solo il compito di attenuare la rabbia del cliente statunitense. Sentirselo dire in perfetto americano non cambia il risultato ma “serve solo ad alimentare il razzismo imperante”, per dirla con Chris Gilliard, animatore di stopspyng.org, un ricercatore che studia gli impatti negativi della tecnologia sulle comunità emarginate.

Chi vuole anticipare questo futuro monocorde, comunque, può fare un test sul sito della Sanas. La distopia in un click.