Cultura

Donne risucchiate nel bagliore azzurro

Dalla mostra «Modern guru and the path to artificial happiness», interactive art experience «Eslite Spectrum», New Taipei City, TaiwanDalla mostra «Modern guru and the path to artificial happiness», interactive art experience «Eslite Spectrum», New Taipei City, Taiwan

Itinerari critici Un percorso di letture e tre protagoniste nel cuore della Silicon Valley, a partire dall'ultimo libro di Sarah Rose Etter «Qui non c’è niente per te, ricordi?» (La Nuova Frontiera)

Pubblicato circa 2 ore faEdizione del 19 novembre 2024

Affidare un senso compiuto alla parola umanità sta diventando un’impresa difficile. Bisognerebbe forse inoltrare la richiesta a un’intelligenza artificiale, lasciarsi sorprendere dalla fantasiosa sintesi di credenze che la nostra specie ha prodotto nel tempo. Oppure iniziare a discernere le allucinazioni come si faceva setacciando l’oro, separando chi crede nei sogni sbagliati da chi invece non sogna più niente.

Fa così Cassie, protagonista poco più che trentenne del romanzo Qui non c’è niente per te, ricordi? di Sarah Rose Etter (La Nuova Frontiera, traduzione di Lorenzo Medici, pp.288, euro 18,50) arrivata a San Francisco dalla provincia con un pugno di speranze sul futuro. «La città è piena di credenti – racconta – Vengono dalle università più prestigiose e si gettano a peso morto sulla tecnologia. Hanno occhi che brillano come se fossero fatti di pixel e cuori che battono per il mercato azionario».

POI CI SONO TUTTI GLI ALTRI, partiti dagli anfratti del paese, spinti a Ovest dalle famiglie per andarsi a meritare una ricompensa. Cassie si colloca tra questi, ma si comporta come se appartenesse ai primi. «Per sopravvivere qui devo dividermi tra due entità, una vera e una fittizia», si rivela. È il 2019, gli scienziati hanno appena diffuso la prima foto di un buco nero e Cassie lavora come creativa dell’ufficio marketing di un’azienda «il cui valore è dovuto a un oscuro trattamento dei dati per profilare gli utenti stimolandoli a fare acquisti online». La seguiamo percorrere ogni giorno lo stesso tragitto, arrancare nella calca tra i palazzi di vetro che costeggiano la baia sostenuta dalla polvere bianca che appena sveglia somministra al posto del caffè; abbandonarsi alla corrente di giacche a vento con sopra appuntati i loghi delle startup più in voga, in un orizzonte dove il brand a cui vendi la mente e l’icona del tuo profilo collassano in un nuovo grado di appartenenza. A poco servono le conversazioni telefoniche con un padre dall’altro lato del continente o il calore insufficiente di un amore troppo liquido.

Sarah Rose Etter torna a raccontare il lavoro come un horror. «Ci hanno aperto il corpo a metà, le viscere sparse sul tavolo della sala conferenze»

Contro l’intransigenza dei discorsi da «donne alfa» di una schiera di vegane appassionate di pilates, muscolose ma ingobbite dalle troppe ore trascorse davanti a un pc non c’è femminismo che tenga, il valore di una lavoratrice si misura ancora in base al modo in cui un amministratore delegato la guarda. «Qui non c’è niente per te, ricordi?», dice la voce all’altro capo del filo mandando in crash la memoria a lungo termine – «è difficile distinguere i ricordi corretti da quelli che sono stati corrotti», ci confida Cassie, persino se in fondo all’elenco delle cose da fare c’è un tamburo che rimbomba – «il mio cuore che canta, no, no, no».

Dopo Il libro di X e la sua versione dark del precariato cognitivo, Etter torna a raccontare il lavoro come se fosse un horror – «ci hanno aperto il corpo a metà, le viscere sparse sul tavolo della sala conferenze» – e lo scrive come un trattato di fisica astronomica: quanto più le sue pagine affondano nella realtà, tanto più definitive risuonano. «Immaginate di addentare un frutto apparentemente maturo, e poi ritrovarvi la bocca piena di marciume», dice la ragazza alle prese con un corpo fertile ormai privo di desideri. La sua voce custodisce al centro il buio che Anna Wiener dispensava ne La valle oscura (Adelphi, 2020, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra), ma ne ha fatto evaporare la parte più lucida, il chiarore della materia che si appresta a sparire dal mondo. Accade così quando si viaggia nel tempo, anche solo con un salto piccolo. «Era l’alba dell’era degli unicorni», scriveva Wiener all’inizio di quello che sarebbe diventato il manifesto istantaneo di un sentimento generazionale, «il settore tecnologico si era espanso oltre la sfera di competenza di futuristi e fanatici dell’hardware per assumere stabilmente il nuovo ruolo di impalcatura della vita quotidiana».

SIAMO NEGLI ANNI successivi alla recessione, quelli che hanno visto i millennial fare il primo ingresso nel mercato del lavoro, la cosiddetta share economy stava consolidando un impero sulla compravendita di dati personali. «Un’interfaccia ben progettata era come la magia o la religione: alimentava una collettiva sospensione dell’incredulità» raccontava Wiener che nel 2013, all’età di venticinque anni, aveva lasciato la piccola agenzia letteraria di Manhattan dove lavorava come assistente per trasferirsi nel cuore della uncanny valley e prendere parte alla mega-transizione del settore editoriale. Dalla correzione di bozze all’assistenza clienti il passo era sembrato semplice, era bastato lasciarsi addosso una maglietta stropicciata con su scritto I’m data driven, sbocconcellare «accaventiquattro» culture aziendali insapori come bombe chimiche.

A SGOCCIOLARE dai soffitti di quegli uffici informali tacitamente fondati su sbornie, Xanax e patatine era il linguaggio semi-analfabeta che negli anni a seguire ci avrebbe addestrati a un futuro «dove ogni cosa – ridotta alla versione più veloce, semplice e patinata di se stessa – poteva essere ottimizzata, gerarchizzata, monetizzata, e controllata».

La grammatica che avrebbe assurto le emoji a sostituti di un discorso iperesteso di aggressività passiva sarebbe stata la stessa che avrebbe perorato la causa del «più donne ai vertici del tech» senza che ne venissero assunte a sufficienza, vincolando il merito all’automiglioramento, costringendo tutti a guardare continuamente se stessi fingendo di guardarsi l’un l’altro «in un atto di sorveglianza infinita».

Opportunità e pericoli della smaterializzazione di sé al tempo dell’intelligenza artificiale, attraversando l’ultima membrana del mondo reale

Certi giorni, scriveva Wiener che nel frattempo come la Cassie di Etter aveva imparato a destreggiarsi tra almeno due avatar – la lavoratrice eccezionale, la femminista guastafeste – «mentre aiutavo uomini a risolvere problemi che si erano creati da soli mi sentivo io stessa un software, un bot: anziché essere un’intelligenza artificiale, ero un artificio intelligente, un frammento di codice empatico o una voce calda che forniva istruzioni».

La fine del lavoro materiale passa inevitabilmente per la smaterializzazione di sé. I corpi sarebbero diventati piattaforme, interi sistemi di conoscenza si sarebbero sgretolati in frammenti di codice. Tutto, persino la coscienza, si stava trasferendo «nel cloud». A essere saltata era la relazione con la macchina che così bene Ellen Ullman descriveva nel suo Accanto alla macchina (Minimum Fax, 2018, traduzione di Vincenzo Latronico), uscito per la prima volta nel 1997 – lo stesso anno in cui l’informatica Rosalind Picard avrebbe dato alle stampe il suo trattato sui rapporti affettivi tra umani e macchine –, agli albori di quel «bagliore azzurro» che ci avrebbe per sempre modificato la vita. «Ho attraversato una membrana oltre la quale il mondo reale e i suoi fini perdono consistenza», ci avvertiva la software engineer arrivata in California negli anni ’80 per lavorare a un database di malati di Aids.

Le sue pagine oggi odorano del pulviscolo che fuoriesce dalle ventole di raffreddamento, emanano l’alone vintage di un femminismo radicale. «I nostri corpi sono stati abbandonati da un pezzo, costretti alla fame e all’insonnia e alla tortura di passare ore incollati a mouse e tastiera», collocava la sua postazione nel momento esatto in cui «chissà quante pagine di specifiche» sarebbero andate incontro alla traduzione «in una lingua straniera chiamata codice». È un confine che rassomiglia a uno stato alterato di coscienza, dove «il mondo come lo comprendono gli umani e il mondo per come va spiegato a un computer» collidono in una disgiunzione matematica capace di raggiungere gli effetti della metanfetamina.

Poi succede qualcosa, le irregolarità prendono il sopravvento e lo schermo si riempie di domande a cui nessuno sa rispondere. «La mente umana è un casino» ci mette in guardia Ullman, piratessa nell’oceano di un’obsolescenza che dalle cose si trasmette alle persone. «Tutto ciò che vogliamo creare, tutto ciò che il sistema dovrà essere in grado di fare, ha bisogno di essere snaturato nel momento del passaggio alla macchina», scriveva affidando al suo sé personaggio, una quarantenne disinibita nelle relazioni e politicamente sensibile, la matassa di implicazioni collettive e intime che nessuno sarebbe più riuscito a sbrogliare.

«MI PIACEREBBE PENSARE che i computer sono neutrali, uno strumento come tutti gli altri» lasciava scritto in quello che funziona come un testamento ritrovato al nucleo di una matrioska immateriale, «ma il problema è che più tempo passiamo a osservare un’idea ristretta dell’esistenza, più la nostra idea di esistenza si restringe». Eravamo convinti di aver inventato un sistema, quello che non avevamo messo in conto era come quel sistema stava inventando noi. Il fatto che persino la baia dorata, le sue navi dirette nel mar del Giappone, le decappottabili che sfrecciavano veloci sulle autostrade mentre qualcuno decideva di lanciarsi sotto una metro, avrebbero perso un valore reale. Che sarebbe contato solo come quel bagliore azzurro ci avrebbe illuminato ancora.

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