Mano di poker al Caesar’s Palace di Las Vegas, uno dei templi del gioco di carte più famoso del mondo foto Ap
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I bravi ragazzi di Vegas

Mano di poker al Caesar’s Palace di Las Vegas, uno dei templi del gioco di carte più famoso del mondo – Ap

Il libro Giuliano Malatesta firma un diario di viaggio sul gioco più famoso al mondo e sulla città che lo rappresenta di più. Benvenuti alle World Series del poker, «l’ultimo posto onesto d’America»

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 16 luglio 2022
Luca CeladaLOS ANGELES

Reportage, diario di viaggio e studio antropologico, Poker a Las Vegas è cronaca ragionata e in prima persona dei campionati mondiali di poker, il mitico World Series of Poker, meta ed ambizione di chiunque al mondo abbia mai fatto una puntata o “chiamato” il bluff di un avversario.

Giuliano Malatesta firma questo prontuario denso e panoramico sul gioco di carte più famoso al mondo e la “sua” città, sottotitolando provocatoriamente il libro “Viaggio nell’ultimo posto onesto d’America”.

Si tratta di una citazione del giornalista e saggista californiano Marc Cooper che si riferiva a sua volta all’etica capitalista che in questa capitale dell’illusione ottica e della finzione scenica è messa nudo senza ipocrisie nella sua forma più elementare e paradossale.

LA PARTECIPAZIONE di Malatesta al massimo torneo che ogni giugno inizia con migliaia di iscritti e per eliminazione finisce con un ultimo tavolo da cui verrà incoronato un campione, è il pretesto per un viaggio attraverso il gioco di carte nato in Texas a metà dell’Ottocento e divenuto il più noto al mondo e giocato oggi in numerose varianti fra cui il seven card stud usato nel torneo.

Qualunque sia la forma, il poker occupa una zona intermedia fra abilità e fortuna, calcolo delle probabilità, deduzione matematica e predisposizione psicologica.

La descrizione forse più adatta che ne fa l’autore è quella di gioco in cui si è tenuti a prendere decisioni con informazioni incomplete – simile per questo al gioco della vita di cui ricalca l’incertezza che tutti quotidianamente dobbiamo affrontare con alterne fortune.

MA OLTRE che di regole, il poker vive evidentemente di mitologia, avvolto dall’aura di rude individualismo e romanticizzato machismo propagati in innumerevoli scene da saloon.

Soggetto immancabile in dozzine di western e film noir. Soggetto frequente del sottogenere dei gambling movies in cui si sono cimentati autori del calibro di Schrader, Jewison, Altman e Paul Thomas Anderson il poker costituisce un export culturale americano di base.

Ma pur radicato nel suo specifico canone, è ormai anche molto di più. Malatesta delinea qui i contorni di un fenomeno globale, sovralimentato dalle versioni di poker online diffusesi a macchia d’olio negli ultimi 20 anni e in una galassia di tornei e federazioni.

Quella principale, il World Poker Tour (Wpt) non è dissimile dalle controparti del golf o del tennis per visibilità, volume di affari e, sì, anche agonismo.

Malatesta scrive dal suo osservatorio privilegiato a bordo tavolo e le parti più efficaci della sua narrazione sono non solo la testimonianza oculare ma quelle in cui traspare l’esperienza personale del dilettante catapultato nel cuore della macchina mediatico-spettacolare del mega torneo col contorno della sua inimitabile fauna.

Qui le facce rigorosamente impassibili dei giocatori nascondono duelli all’ultimo sangue che per spietatezza hanno poco da invidiare alla monta dei tori nei mondiali di rodeo (che ovviamente si svolgono anche quelli a Las Vegas.)

L’AUTORE, frequentatore abituale di amichevoli bische romane, documenta il suo pellegrinaggio alla mecca delle carte (e di ogni altro tipo di gioco più o meno d’azzardo) che è soggetto paritario ed inseparabile di questa narrazione, sia nella sua dimensione “mitologica” che di luogo “reale”.

La prima è legata alle origini della città come polverosa stazione per diligenze, missione mormone e scalo ferroviario prima del boom alimentato dalle maestranze giunte a costruire la vicina Hoover Dam, la diga che avrebbe innescato la nascita dei casino immaginati da Bugsy Siegel e compartecipati dalla mafia.

Nel radioso dopoguerra (un po’ anche per i visibili bagliori del centinaio di test atomici effettuati nella vicina base aeronautica di Nellis), Vegas era territorio del Rat Pack di Sinatra, Martin e Sammy Davis Jr., impero del kitsch e di Elvis contornati di paillettes e cappelle drive-in per matrimoni instant. Malatesta ne ripercorre le tappe salienti principalmente attraverso le storie dei poker players rimasti negli annali – dagli antesignani in stetson che si riunivano al Horseshoe di Jack Binion sulla vecchia Fremont street a successive generazioni di aspiranti vincitori dall’accesso sempre più democratico ai tavoli verdi.

OGGI LE DIRETTE televisive, gli sponsor ed i tornei preliminari online hanno proiettato il poker nel mondo dei grandi business agonistici e dei grandi affari che li accompagnano. È una storia che percorre in parallelo anche la stessa città che negli anni ‘80 e ‘90 compirà una metamorfosi da Sin City a divertimentificio industriale per famiglie e capitale delle fiere commerciali sull’onda di un fiume di denaro della grande finanza che scalzerà la malavita come principale sponsor.

Sono gli anni della grande trasformazione in cui le demolizioni “implosive” diventano praticamente una forma autoctona di spettacolo ed i vecchi edifici vengono via via rimpiazzati dagli hotel-casino della nuova Strip: MGM, Luxor. New York New York, Paris, Venetian, Mirage e Bellagio. È un era dominata da magnati come Steve Wynn e Sheldon Adelson (entrambi finanziatori miliardari del Gop e di Donald Trump).

MALATESTA TESSE questa storia con quella del poker, raccogliendo indizi cosciente del fatto che i giocatori sono per definizione bugiardi di professione e che la città stessa continua ad essere costruita su di un’affabulazione sempre limitrofa all’agiografia e al marketing (per capirlo basta un giro, per dire, al Mob Museum dedicato ai mafiosi storici, completo di speakeasy funzionante).

Ma nel libro vi sono anche scorci sulla città che esiste dietro alle facciate sbrilluccicanti dei casinò, una città “vera” fatta di tripli turni lavorativi per una gigantesca ed organizzata forza lavoro (in gran parte ispanica).

Las Vegas è da molto la città più sindacalizzata d’America, roccaforte delle unions nell’era del terziario come Detroit lo era ai tempi della siderurgia pesante e quindi roccaforte di potere democratico in uno stato profondamente conservatore.

Oltre ai lavoratori dell’ospitalità dediti alle 150mila stanze d’albergo e casino, la fabbrica di spettacolo h24 impiega un esercito di performer e maestranze senza pari. Gente che abita studia e lavora nella città che a milioni di altri offre un miraggio da lungo weekend studiato a tavolino per essere irreale (proprio come gli interni dei casino sono progettati per nascondere le uscite e tenere al gente ai tavoli da gioco).

IN QUESTO SPACCATO, sintetico ma esauriente, fanno capolino improbabili campioni, testimoni reticenti, ludopatici perduti, nerd convertiti, sistemisti, teorici e altri autori che negli anni hanno attraversato il confino tenue fra letteratura e gioco come James Mc Manus, Maria Konnikova e Hunter S. Thompson. Cronisti ed al contempo succubi del fascino indiscreto e irresistibile del tavolo verde.

Una nobile e perduta stirpe di adepti in cui si situa volontariamente anche Malatesta il quale lascerà infine Vegas con la tacita promessa di un sicuro prossimo ritorno, a caccia dell’elusivo colpo grosso.

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