Henry Wise, quell’incerto ritorno a casa
L'intervista Parla lo scrittore della Virginia, autore di «Hole City», pubblicato nella collana Cielo Stellato di Carbonio. Un esordio narrativo che indaga i confini dell’identità e il peso del passato, e della Storia, negli Usa di oggi. «La letteratura è empatia. Pur se immaginari i miei personaggi mi hanno insegnato a fare i conti con ciò che ho ereditato, non solo personalmente, in una terra segnata dalla Guerra civile»
L'intervista Parla lo scrittore della Virginia, autore di «Hole City», pubblicato nella collana Cielo Stellato di Carbonio. Un esordio narrativo che indaga i confini dell’identità e il peso del passato, e della Storia, negli Usa di oggi. «La letteratura è empatia. Pur se immaginari i miei personaggi mi hanno insegnato a fare i conti con ciò che ho ereditato, non solo personalmente, in una terra segnata dalla Guerra civile»
Poche decine di chilometri separano la contea di Euphoria da Richmond, eppure quando Will Seems decide che, dopo dieci anni, è venuto finalmente il tempo di fare ritorno nel piccolo centro delle campagne della Virginia i cui è nato, si ha la sensazione che stia valicando un confine invisibile, ma non per questo meno consistente.
Come un grumo rappreso di brutti sogni e risvegli ancor peggiori, ciò che il protagonista di Holy City (traduzione di Olimpia Ellero, Carbonio, pp. 346, euro 19, 50) chiama «casa» assomiglia ad un concentrato dei fantasmi che il Sud degli Stati uniti ha accumulato nel corso del tempo: dall’ombra minacciosa del «potere bianco» della Guerra di secessione all’epidemia di dipendenze e consumi tossici degli ultimi decenni.
Romanzo d’esordio di Henry Wise, uno scrittore nato a Alexandria, in Virginia, nel 1982 e che ha già pubblicato molti racconti e poesie su importanti testate, come Southern Cultures, Holy City racconta inquietudini, speranze e timori di una terra che, come molte altre parti degli Stati Uniti, si interroga sul lascito del proprio passato specchiandosi in un presente incerto e pieno di nubi.
«Holy City» si presenta come un romanzo poliziesco, ma, procedendo nella lettura, ci si rende conto che i misteri celati nell’animo dei personaggi possono fare forse più paura dei crimini che vengono commessi. Cosa voleva emergesse dal libro?
Ai miei occhi, il romanzo parla soprattutto del potere e dell’inutilità della colpa. Molti personaggi fanno i conti con dolori profondi e, spesso, invalidanti, e sono alla ricerca dei modi per alleviare questa loro sofferenza attraverso l’uso di sostanze o con l’azione. Will Seems, il protagonista, prova un grande senso di colpa legato alle questioni razziali, ed in particolare ad una vicenda di cui è stato vittima da ragazzo insieme da un suo coetaneo afroamericano. Ma soffre anche per la morte della madre e per alcune decisioni che ha assunto in passato. L’intera storia è perciò percorsa da un interrogativo su cosa si possa costruire, o meno, a partire da tali sentimenti.
Nel romanzo ha grande rilievo il rapporto con ciò che i personaggi considerano «home», in senso reale e simbolico. Eppure, a partire dalla figura del protagonista, il cui ritorno a casa è tutt’altro che accompagnato da risposte tranquillizzanti, tutto ciò appare contraddittorio se non minaccioso…
Le persone sono solite dire «non c’è un altro posto come casa», o «casa dolce casa». Mentre scrivevo il libro avevo però in mente cosa succede quando «la casa» non rappresenta un luogo di conforto, sicurezza e certezze. E se il ritorno a casa fosse più preoccupante e tossico, come «una ricaduta»? Sebbene Will sia un personaggio oscuro, imperfetto e tormentato dal senso di colpa e dal rimorso, appare certo solo di una cosa: che ha bisogno di tornare a casa, anche se ha tutte le scuse per restare a Richmond, dove suo padre lo ha trasferito dopo la morte della madre. Non sono sicuro che nel romanzo ci siano degli eroi, ma questa decisione mi sembra coraggiosa, rappresenta qualcosa che in qualche modo lo riscatta: tornando, si impegna ad affrontare il suo passato, e a qualunque costo.
In «Holy City» sembra avere una grande importanza anche il tema dell’identità (persone, luoghi, culture). Argomenti tornati spesso nella campagna elettorale che si conclude oggi: come pensa che il Paese li stia affrontando e lei come lo fa?
La letteratura richiede simpatia ed empatia, anche se l’opera che stiamo leggendo non ha un carattere romantico. Si tratta di offrire al lettore un’esperienza che altrimenti non avrebbe mai avuto, o di farlo entrare nei panni di una persona che altrimenti non potrebbe comprendere, qualcuno che non ha il suo background, la sua identità o la sua prospettiva rispetto alle cose. Per me questi personaggi sono reali. Sebbene siano immaginari, sono veri. Mi hanno insegnato molto su come fare i conti con la propria identità. Così, Will è diviso tra il difendere chi è e cercare di rimediare a quanto accaduto: non solo personalmente, ma storicamente, attraverso i suoi antenati, che hanno messo in moto il suo essere, fino a ciò che lui è oggi. L’identità è una cosa complicata, perché ciascuno ne ha una o più d’una, e con i relativi obblighi. Sebbene questa non sia un’opera autobiografia, anch’io, come il protagonista, sono della Virginia e nel libro mi misuro con le molte identità che ho. Perciò, in parte si tratta di una cupa lettera d’amore alla mia terra. Del resto, anche Will guarda a ciò che è venuto prima di lui, a coloro che diedero vita alla secessione e riflette sulla complessità e il peso della propria identità: «Pensava ai suoi antenati, affamati e feriti a sangue, che si riprendevano lentamente dalla guerra e dalla povertà di una regione, una nazione rinnegata, patriota e traditrice allo stesso tempo».
Attraversando Richmond in auto Will riflette sul numero di statue «confederate» che popolano il centro (poi rimosse tra il 2020 e il 2021), interrogandosi sul fatto che la città è però vivace e aperta. Cosa ci dice la convivenza di tali contraddizioni che caratterizzano la storia che ha scelto di raccontare?
Il Sud è complicato. È pieno di estremi e paradossi. Ricchi e poveri, analfabeti e colti, gente di città e gente di campagna, bianchi e neri. La Virginia ha il suo marchio di complessità. È il Sud, ma non è solo il Sud. Jamestown fu la prima colonia in quelli che sarebbero diventati gli Stati Uniti, e fu in Virginia che Thomas Jefferson redasse la Dichiarazione di Indipendenza. Molti dei padri fondatori provenivano dallo Stato e otto presidenti degli Stati Uniti erano della Virginia. Come scrivo in Holy City, quelle statue danno vita ad «un sinistro omaggio alla Confederazione». E rappresentano anche una parte importante di ciò che Richmond significa per Will. Sembrano ricordargli che ha una responsabilità. Che il passato non se ne andrà da solo. E anche che appartiene a quel mondo di ribellione. Lui osserva anche il memoriale confederato di fronte al tribunale di Dawn, Virginia, la sua città natale. La presenza di tali monumenti davanti ai luoghi di giustizia mette in discussione l’integrità del sistema giudiziario. In un certo senso, ciò giustifica gli sforzi di Will di farsi giustizia da solo, visto che «il sistema» è viziato.
Un altro autore della Virginia, S. A. Cosby, a cui è stato avvicinato, ha detto al «manifesto» di considerare la tradizione del «gotico sudista» come una rappresentazione della corruzione morale che deriva dal peccato originale dello schiavismo e della Guerra civile. E per lei cosa rappresenta?
Cosby ha ragione. Il «gotico» trovò una nuova casa nel Sud dopo la Guerra civile, e questo per un motivo. Il Sud era stato devastato da una guerra che aveva messo in luce il suo «peccato originale della schiavitù». Era il lato oscuro dell’America. Personalmente considero il gotico sudista uno strumento per elaborare gli estremi di questa terra. Ciò che per me è poi davvero interessante riguardo a tale stile, è che, esponendo il lato oscuro di ogni elemento, il bianco e il nero di ogni cosa, si trasforma in una sorta di «livellatore». Tutte le istituzioni umane sono imperfette e il gotico non permette che nulla sia davvero sacro.
Come una metafora dell’intero Paese, la Virginia del libro appare sospesa tra luoghi in cui le diversità appaiono come altrettante insanabili divisioni o come uno spunto per immaginare il futuro in modo nuovo. Guardando al voto, quale tra queste due idee d’America prevarrà?
Al momento l’esito di queste elezioni appare in parità, quindi non riesco nemmeno a immaginare in quale direzione ci stiamo dirigendo. Il nostro Paese è diviso, anche se credo che la maggior parte degli americani apprezzi la diversità che ci ha sempre reso unici. Spero che, indipendentemente da chi vincerà, potremo unirci dietro valori comuni. Questo romanzo rappresenta il mio sforzo per confrontarmi con il passato e guardare al futuro, e spero che possiamo farlo come Paese, senza abbattere il sistema di controlli ed equilibri (checks and balances) di cui godiamo e che dovrebbero creare stabilità anche in tempi turbolenti. Come scrivo nel libro riguardo l’apparente polarizzazione razziale della Virginia rurale, «sembrava che dovessero essere l’uno contro l’altro, ma in realtà erano schierati dietro la stessa trincea». Qualcosa che forse vale per tutti gli americani di oggi.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento