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Elezioni Usa, il “golpe bianco” si può fare: basta bloccare alcuni stati

La Corte suprema Usa a Washington - foto ApLa Corte suprema Usa a Washington – foto Ap

Elettorale americana Il piano: rovesciare il voto con pertugi nella Costituzione

Pubblicato circa 2 ore faEdizione del 5 novembre 2024

L’ossessione dei media di tutto il mondo sul “testa a testa” nei sondaggi fra Trump e Harris crea una fitta nebbia che impedisce di vedere le questioni più importanti nella campagna elettorale degli Stati Uniti. Primo: Kamala Harris avrà alcuni milioni di voti dei cittadini più di Donald Trump. In qualsiasi altra democrazia del mondo chi ottiene più voti diventa presidente. I repubblicani, nelle ultime otto elezioni presidenziali hanno avuto una maggioranza di voti popolari soltanto una volta, nel 2004: Trump, nel 2016, vinse pur avendo raccolto circa tre milioni di voti meno di Hillary Clinton, grazie all’infernale meccanismo del collegio elettorale, che sovrarappresenta gli stati meno popolati. Questo scenario potrebbe ripetersi quest’anno.

Secondo: c’è un piano di Trump e dei suoi pretoriani per rovesciare il risultato delle elezioni anche nel caso che Kamala abbia la maggioranza nel collegio elettorale. Questo piano si basa sulla particolare vulnerabilità a brogli e manipolazioni creata dalla stessa Costituzione e quindi ha reali probabilità di successo. I dettagli sono un po’ intricati ma necessari per capire il progetto eversivo.

QUESTO GOLPE bianco si può attuare grazie al XII emendamento della Costituzione, approvato nel 1804, che ovviamente non prevedeva la possibilità che un aspirante dittatore arrivasse alla fase finale del processo elettorale. Il testo dice: “Gli elettori si riuniranno nei rispettivi stati, e voteranno a scrutinio segreto per il presidente e il Vicepresidente (…) essi faranno distinte liste di tutte le persone votate (…) liste che essi firmeranno e certificheranno e trasmetteranno sigillate alla sede del governo degli Stati Uniti, dirette al presidente del Senato. Il presidente del Senato, alla presenza del Senato e della Camera dei rappresentanti, aprirà tutti i plichi certificati e i voti saranno contati”.

Questa procedura era quella che Trump voleva sfruttare già nel 2020 costringendo Mike Pence, allora vicepresidente e quindi presidente del Senato, a non accettare alcune liste di stati che avevano votato per Biden, creando una situazione in cui nessuno dei due candidati avesse la maggioranza. Il piano fallì perché Pence rifiutò di prestarsi al tentativo eversivo. Non a caso la folla che invase il Congresso il 6 gennaio gridava “Impiccate Mike Pence”.

L’EMENDAMENTO prosegue con questo passaggio, che è la chiave di tutto: “La persona che avrà il più alto numero di voti come presidente sarà presidente se tale numero è la maggioranza del numero totale degli elettori nominati”. Attualmente il numero dei grandi elettori è 538 quindi la maggioranza è 270. E se nessuno ottiene questa maggioranza, allora (…) la Camera dei rappresentanti sceglierà immediatamente, a scrutinio segreto, il presidente. Ma nello scegliere il presidente i voti saranno dati per stati, e la rappresentanza di ciascuno Stato disporrà di un voto”.

NEL CASO KAMALA raggiunga o superi i 270 voti, i repubblicani si sono preparati da tempo a usare la clausola “se nessuno ottiene questa maggioranza” per spostare la scelta del presidente dal collegio elettorale alla Camera. Lo strumento è semplicemente il rifiuto di certificare i voti in alcuni stati controllati dai repubblicani stessi. Per esempio, la Georgia aveva approvato una legge che dava al Board of Elections il potere di sospendere la certificazione dei voti e di “condurre indagini” se aveva il sospetto di brogli. La legge è stato poi sospesa da un giudice ma il modello è quello.

Poiché esistono delle scadenze fissate per legge per contare e certificare i voti (il presidente deve, in ogni caso, entrare in carica il 20 gennaio prossimo) alcuni stati hanno effettivamente la possibilità di creare una situazione in cui la scelta del presidente passi alla Camera dei rappresentanti, dove i repubblicani hanno la maggioranza. Naturalmente, questo richiede la sfacciata complicità della Corte suprema ma la Corte ha già dimostrato in passato di essere al servizio di Trump che ha nominato 3 dei suoi 9 membri.

Uno scenario plausibile, secondo gli ultimi sondaggi, è che Kamala Harris ottenga una risicata maggioranza nel collegio elettorale: 270 voti contro i 268 a Trump. In questo caso, sarebbe sufficiente che uno degli stati in cui i cittadini hanno votato a maggioranza per i democratici sospendesse la certificazione dei voti per far avanzare il piano: potrebbe accadere in New Hampshire, dove il governatore e il parlamento locale sono controllati dai repubblicani.

È GIÀ ACCADUTO che un presidente sia stato nominato dalla Camera e non dal collegio elettorale: per la prima volta nel 1800 (un’elezione non meno drammatica di questa) quando furono necessari 36 ballottaggi per scegliere tra Thomas Jefferson e Aaron Burr che avevano ricevuto lo stesso numero di voti; il rinvio alla Camera avvenne una seconda volta nel 1824 quando i candidati erano quattro e nessuno ottenne i 131 voti necessari per avere la maggioranza nel collegio elettorale: un accordo tra John Quincy Adams e Henry Clay permise al primo di essere eletto e al secondo di diventare segretario di stato.

Difficile, quindi, che mercoledì mattina sia chiaro chi sarà il presidente degli Stati Uniti per i prossimi quattro anni: è più probabile che un tourbillon di conteggi e ricorsi faccia restare il mondo con il fiato sospeso per alcuni giorni, o settimane, come accadde nelle elezioni del 2000 in Florida. E il risultato finale potrebbe non essere quello voluto dai cittadini.

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