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Elezioni Usa, al Senato possibile 50-50: occhio al Nebraska

Dan Osborn -foto ApDan Osborn – foto Ap

Elettorale americana Un nome da segnarsi: Dan Osborn. Potrebbe essere lui, per 20 anni meccanico alla Kellogg's, l'ago della bilancia del prossimo governo a stelle e strisce

Pubblicato circa 2 ore faEdizione del 5 novembre 2024

Sarà un sindacalista licenziato dalla sua fabbrica, un indipendente con poca simpatia per i democratici che sfida una senatrice repubblicana in uno stato del Far West a decidere chi controllerà il Senato degli Stati Uniti nei prossimi anni? Presi nello psicodramma delle elezioni presidenziali del 5 novembre, gli osservatori di tutto il mondo hanno trascurato ciò che accadrà nel Congresso, dove la maggioranza potrebbe cambiare di segno sia al Senato che alla Camera.

Bisogna ricordare che il quanto e il come un presidente può governare dipende molto dall’assetto del Senato. Spetta al Senato, infatti, accettare o respingere i nomi proposti dalla Casa Bianca per tuti i posti del governo federale, dai giudici della Corte suprema a un giudice di Albuquerque e all’ambasciatore nelle isole Fiji. Per esempio, nel 2016, la maggioranza repubblicana in Senato impedì a Barack Obama di mandare alla Corte Suprema Merrick Garland, aprendo la strada a un fedelissimo di Trump l’anno successivo.

Se quindi Trump verrà rieletto potrà riempire il governo di suoi scherani solo a condizione di avere anche il Senato dalla sua parte, mentre se sarà Kamala Harris a prevalere, riuscirà ad applicare il suo programma soltanto se sarà in grado di nominare dei democratici ai posti chiave della macchina federale.

Fino a poche settimane fa i repubblicani erano certi di riconquistare la maggioranza in Senato, dove i democratici hanno soltanto 51 seggi su 100 perché quest’anno si vota in 34 stati, alcuni dei quali sono rappresentati da senatori democratici ma favorevoli a Trump, che aveva vinto con largo margine nel 2020. Si tratta di West Virginia, Nebraska e Ohio, oltre all’Arizona, dove Trump aveva perso per una manciata di voti. Spesso i candidati democratici al Senato ottengono risultati migliori rispetto ai candidati democratici alle presidenziali, ma quest’anno sarà sufficiente?

Partiamo dal West Virginia, uno stato che dal 2010 aveva come senatore un democratico, Joe Manchin. Asservito agli interessi dell’industria carbonifera da cui proveniva, pessimo ma comunque nominalmente democratico, rappresentava uno stato compattamente repubblicano da decenni: nel 2020 Trump aveva ottenuto il 69% dei voti, quaranta punti percentuali più di Joe Biden. Manchin quest’anno non si è ripresentato e quindi i repubblicani sono certi di eleggere l’ex governatore Jim Justice, anche lui un milionario delle miniere di carbone. Se tutto il resto restasse uguale questo porterebbe il Senato a dividersi 50-50.

I repubblicani contano su un successo in Ohio, dove Trump ha vinto sia nel 2016 che nel 2020, strappando il seggio oggi detenuto dal democratico Sherrod Brown: saremmo così 51-49. Avevano delle speranze anche sul seggio del Senato in Arizona, dove la democratica, e poi indipendente, Kyrsten Sinema, quest’anno non si è ripresentata, ma poi hanno scelto come loro candidato Kari Lake, una trumpista anti-vax. Lake, non solo è di estrema destra, ma è sostanzialmente una squilibrata, quindi i sondaggi danno in largo vantaggio il suo avversario Ruben Gallego: il seggio dovrebbe restare ai democratici.

Poi è arrivato Dan Osborn in Nebraska. Meccanico per 20 anni alla Kellogg’s (quella dei cereali) non si era mai particolarmente interessato di politica fino a quando aveva tentato di negoziare con la direzione un nuovo contratto nel 2021. Durante la pandemia gli operai della Kellogg’s avevano fatto turni di 12 ore, sette giorni su sette, perché considerati “lavoratori essenziali”: malgrado il Covid non si potevano far mancare i corn flakes sul tavolo della colazione di ogni famigliola americana.

Vendite e profitti schizzarono in alto ma alle richieste del sindacato la Kellogg’s rispose cercando di tagliare le spese per le cure sanitarie dei dipendenti e rifiutando ogni aumento per far fronte al costo della vita. Quando le trattative fallirono Osborn convinse i lavoratori del suo stabilimento a proclamare uno sciopero: dopo due mesi e mezzo la lotta si concluse con l’accettazione della maggior parte delle richieste del sindacato. Osborn però fu licenziato nel 2023 con l’incredibile pretesto di “guardare Netflix sul lavoro”.

Conosciuto da tutti a Omaha, e adesso anche nel resto del Nebraska, Osborn si è lanciato nell’impresa impossibile di scalzare dal suo posto la ricca senatrice repubblicana Deb Fischer che nel 2018 aveva staccato il suo avversario democratico di venti punti percentuali (Trump ha fatto lo stesso con Biden nel 2020: 58% contro 39%). Il partito democratico lo ignora ma gli elettori no: i sondaggi lo danno sostanzialmente alla pari con la Fischer malgrado il torrente di denaro che i repubblicani stanno spendendo per difendere il loro seggio, un seggio considerato sicuro da tutti gli esperti.

Figlio di una tradizione di populismo dell’Ovest che risale all’Ottocento e a William Jennings Bryan (tre volte candidato alla presidenza degli Stati Uniti), Osborn ha sorpreso tutti con una campagna porta a porta contro i monopoli, per aumentare il salario minimo e per tassare seriamente i profitti delle aziende. Se fosse eletto, e decidesse di allearsi con i democratici in Senato, la bilancia tornerebbe a fermarsi sul 50-50: sufficiente per governare, se Kamala Harris fosse eletta e quindi spettasse al vicepresidente Tim Walz creare una maggioranza in caso di parità.

Le sorti del Senato, e quindi della prossima amministrazione, dipendono da un autentico operaio licenziato, senza legami con i partiti maggiori e men che meno con i miliardari che li finanziano generosamente. Se davvero Osborn vincesse in Nebraska dovrebbero fare un film su di lui, un remake di It’s a Wonderful Life di Frank Capra, anno di grazia 1946.

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