Dopo tre anni di pandemia anche il business farmaceutico si va sgonfiando. La Pfizer, che ha sfruttato il virus meglio di tutte le altre società, prevede per il 2023 un fatturato in calo del 30% dopo l’anno record 2022 in cui ha toccato i 100 miliardi di dollari. Ora che la bolla scoppia, è tempo di chiedersi chi l’abbia alimentata.

A fare i conti ci ha pensato l’economista Massimo Florio dell’università di Milano Statale. Florio si è concentrato su 9 vaccini anti-Covid (tra cui anche il tedesco CureVac, mai autorizzato) e ha scoperto che il denaro per il loro sviluppo è arrivato in gran parte dai soldi pubblici. Gli investimenti di Stati Uniti, Unione Europea e altri governi a favore delle multinazionali farmaceutiche ammontano infatti a circa 30 miliardi di euro, due terzi dei quali per acquisti anticipati. Dal canto loro, le aziende hanno investito circa 16 miliardi di euro, circa la metà. A sostenere il rischio dello sviluppo dei vaccini dunque sono stati i soldi dei contribuenti. Lo sviluppo dei vaccini è stato aiutato in gran parte dal governo Usa, con un ruolo minore da parte da Germania e Regno Unito. Europa e Stati Uniti, invece, hanno speso più o meno la stessa quota di anticipi sugli acquisti.

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«L’Europa ha svolto un ruolo del tutto passivo» spiega Florio. «I vaccini sono stati messi a punto in gran parte grazie alle ricerche pubbliche svolte al National Institutes of Health e ai fondi pubblici statunitensi. L’Europa si è limitare ad acquistare vaccini prodotti altrove attraverso l’Autorità per la preparazione e la risposta alle emergenze. Che però non ha avuto dalla Commissione linee guida stringenti su cui negoziare con le aziende».

Alcuni Stati hanno preferito muoversi in autonomia. Basti pensare che la Germania ha investito 2,9 miliardi di euro per i «suoi» vaccini, mentre l’Autorità europea dispone di un miliardo di euro in tutto di budget. «La pandemia non è finita e le aziende produttrici dei vaccini hanno comunicato agli investitori che i prezzi dei vaccini saliranno da 20 a oltre 100 euro a dose. Senza linee guida, come si muoverà l’Europa?» chiede Florio.

I numeri sono stati presentati durante un incontro alla Fondazione Basso di Roma organizzato dal Forum Disuguaglianze e Diversità. La proposta di Florio sposata dal think tank diretto dall’economista ed ex-ministro Fabrizio Barca è la creazione di un ente di ricerca paneuropeo per la ricerca farmaceutica. Qualcosa di analogo all’Agenzia Spaziale Europea, ma dedicata alla salute pubblica. «Se un’agenzia pubblica europea con un budget di 7 miliardi di euro è in grado di lanciare satelliti, forse è possibile anche lanciare farmaci. Mantenendo anche un buon rapporto con le aziende: all’Esa i privati ci sono, ma agiscono da fornitori e non hanno il controllo sul processo».

Per l’Europa è un momento chiave su questi temi e la pressione delle lobby si fa sentire. Alla fine del 2022 era attesa la revisione della «strategia farmaceutica europea». La nuova legislazione mira a limitare il controllo delle multinazionali sul mercato dei farmaci attraverso i brevetti. La riforma, secondo una bozza ufficiosa circolata, punta a limitare le pratiche usate dalle aziende per prolungare i monopoli sui farmaci persino oltre i vent’anni garantiti dai brevetti. Il ritardo nella presentazione del testo ufficiale è determinato dalla resistenza delle lobby che rappresentano gli interessi delle aziende farmaceutiche. L’obiettivo è inviare al Parlamento un testo già «addomesticato». Così la presentazione è stata rimandata prima a marzo 2023, e ora anche questa scadenza è stata disattesa.

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In campo internazionale, l’Europa sta bloccando anche il negoziato all’Organizzazione Mondiale del Commercio sulla sospensione dei brevetti sui farmaci anti-Covid. «Il Parlamento Europeo ha votato una risoluzione per sospendere i brevetti sui vaccini ma molti governi europei non sono d’accordo» spiega Marc Botenga, deputato della Sinistra al Parlamento europeo. «Anche sulla strategia europea noi faremo le nostre proposte. Ma non bisogna farsi illusioni sulle istituzioni europee: serve una mobilitazione nella società. Le aziende lo hanno capito e infatti si sono mosse. È fuori dal Parlamento europeo che serve una risposta». È possibile, in queste condizioni, pensare all’istituzione di un’agenzia europea analoga all’Esa che si occupi di salute? «Difficile» ammette Patrizia Toia, anche lei eletta a Strasburgo ma nel gruppo dei Socialisti e Democratici. «Sulla legislazione farmaceutica, le aziende hanno attivato i loro riferimenti politici. Però nella scorsa legislatura sono state fatte cose impensabili, come l’istituzione del fondo Next Generation EU. Dipende dall’ambizione politica e dai rapporti di forza».

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Non sempre i brevetti farmaceutici sono stati intoccabili come oggi. Trasformare i «monopoli» in un diritto assimilato alla proprietà privata è stato uno dei maggiori risultati dell’attività di lobbying da parte delle industrie negli ultimi decenni. Ugo Pagano insegna Politica economica all’università di Siena e ricostruisce questo processo. «Una data-chiave è il 9 marzo 1978. Quel giorno, la Corte Costituzionale italiana rese illegittimo il divieto di brevettare farmaci in vigore fino ad allora, ritenendolo un’illegittima disparità ai danni delle aziende farmaceutiche». Non è un processo solo italiano. «I brevetti servivano in chiave nazionale per difendere alcuni settori industriali dalla concorrenza straniera, ma comportano alti prezzi e un rallentamento dell’attività innovativa» spiega Pagano. «La svolta arriva con il crollo dell’Urss. Le aziende più toccate dalla proprietà intellettuale (farmaceutiche, ma anche informatica e audio-video, ndr) premono sugli Stati finché non si arriva agli accordi globali cosiddetti “TRIPs” firmati al Wto nel 1994. Che trasformano il monopolio in un “diritto”».

Per tentare di invertire la rotta almeno in chiave continentale, Barca e i suoi hanno promosso un manifesto intitolato «Liberare la conoscenza per ridurre le disuguaglianze», al centro dell’incontro di ieri. Il manifesto si batte contro «il rischio di un uso autoritario della conoscenza» e «peggiorativo in termine di disuguaglianze socio-economiche» al fine di «orientare le transizioni digitale e tecnologica in senso democratico». Al centro dell’appello c’è l’Europa e le sue infrastrutture ancora da costruire, ma anche la «revisione dell’accorto TRIPs per riequilibrare la gerarchia tra il principio della conoscenza come bene comune e proprietà intellettuale».