La società e la follia
Storie Una chiamata urgente da un telefono pubblico: Basaglia deve trasmettere un articolo sulla morte di Pasolini. Con lui aveva condiviso le battaglie per la riforma psichiatrica
Storie Una chiamata urgente da un telefono pubblico: Basaglia deve trasmettere un articolo sulla morte di Pasolini. Con lui aveva condiviso le battaglie per la riforma psichiatrica
È il 3 novembre del 1975. Un primo pomeriggio umido e fosco, quando un tipo si dirige a passo svelto verso l’Antico Posto di Ristoro sul piccolo valico della Libbia, nel comune aretino di Anghiari. Ha urgente bisogno di fare una chiamata. Ma di lunedì il telefono pubblico è chiuso. Picchia allora insistentemente sul portone di vetro fino a che arriva Lucio, il giovanissimo figlio del proprietario: «mi disse che doveva trasmettere un articolo alla redazione di Paese Sera; e io gli aprii».
Quell’uomo era Franco Basaglia, nell’impellenza di inviare un pezzo sull’amico Pier Paolo Pasolini, assassinato al Lido di Ostia il giorno prima. «Il grande artista e intellettuale ci ha parlato di una mutazione genetica in corso con gravissimi guasti nel nostro sistema sociale ed in particolare sulle nuove generazioni». Così scrisse Basaglia, aggiungendo: «il movimento che in questi anni si è creato sui temi della lotta all’emarginazione e all’esclusione si deve collegare ancor più alla lotta politica generale per una società in cui i rapporti tra le persone non siano basati sullo sfruttamento e la mercificazione». Naturalmente il cofondatore di Psichiatria democratica, del quale si celebrano i cento anni dalla nascita, menzionava pure le battaglie condivise con Pasolini «contro la violenza sociale e istituzionale che produce la mostruosità dei manicomi e dei lager».
L’EPISODIO, fin qui sconosciuto, è stato scoperto ad Anghiari durante la scrittura di Tovaglia a Quadri per mano di Andrea Merendelli e Paolo Pennacchini: un mix di recitazione e canzoni popolari di una cena all’aperto fra una portata e l’altra di bringoli, stracotto di chianina e cantucci con vin santo finali. L’edizione di quest’anno è stata intitolata Mattimonio, proprio a rievocare il percorso di chiusura del manicomio di Arezzo (pressoché contemporanea a quello di Trieste).
Quel fatidico giorno Basaglia era alla Fattoria della Scheggia ospite di Agostino Pirella, per l’appunto direttore del manicomio arertino, che con lui firmò quell’articolo. I due si trovavano con certa frequenza «intra Tevero et Arno», ovvero a cavallo del Casentino e della Valtiberina, in quell’ex staterello del Granducato di Toscana che fu il primo nella storia ad abolire la pena di morte; ma anche a togliere i «matti» dalle carceri aprendo i manicomi. Discutevano sul come procedere verso la «de-istituzionalizzazione» per quello che sarebbe stato, tre anni più tardi, il varo della Legge 180, che gli ospedali psichiatrici doveva abolire.
Ebbene, grazie alla brillante rappresentazione di Mattimonio, Tovaglia si è aggiudicata a Padova (lunedì scorso, ndr) nientemeno che il Premio Nazionale della Critica Teatrale. Giusto alla vigilia del suo trentesimo compleanno che si svolgerà nello scenario del Castello di Sorci (sempre in Anghiari). Dove fra l’altro Basaglia e Pirella erano usi cenare talvolta con la loro equipe.
Nell’opera, Flavia (attrice protagonista) richiama la storia di Adalgisa Conti, una 26enne anghiarese che nel novembre 1913, senza madre né padre e dopo neppure un anno di matrimonio, viene rinchiusa ai Tetti Rossi (com’era soprannominata la struttura manicomiale aretina) per volere del marito Probo Palombini. Durante i complicati preparativi del suo di «mattimonio» Flavia evoca una lettera in cui Adalgisa affermava:
«Io sono la peggiore di tutte; per colpa mia, perché non sono sottomessa e umile a cedere ai voleri di mio marito…»Adalgisa ContiRimarrà rinchiusa lì dentro per settant’anni fino alla sua morte nel 1983.
Su Adalgisa Conti già nel ’78 uscì una incredibile autobiografia curata da Luciano della Mea dal titolo Manicomio 1914: gentilissimo sig. dottore, questa è la mia vita che parte da un suo scritto in cui chiede al proprio medico di riconsiderare il provvedimento di ricovero. Non ricevendo risposta (il consorte non la rivoleva indietro) e manifestando intenzioni suicide, Adalgisa venne spostata al reparto «agitate».
LA PUBBLICAZIONE fu tradotta al tedesco, fino ad essere promossa con una foto che la raffigurava insieme a un’altra immagine di Rosa Luxemburg. Anni dopo ispirò pure l’opera teatrale Lola che dilati la camicia del regista Marco Baliani. Del resto in quella decade la battaglia per l’abolizione delle strutture costrittive si intrecciava strettamente con l’emergere dei movimenti femministi.
Lo psichiatria Piero Iozzia, dal ’74 responsabile del «lungodegenti donne» del Manicomio provinciale di Arezzo, ce la ricorda così: «taciturna, quasi non parlava; ma era capace di rivolgerti un flebile sorriso affettuoso, da vecchietta». E poi ci riferisce di quando la colsero sporcandosi i bianchi capelli con le proprie feci. «Il personale interpretò il gesto come che volesse tingerseli, forse di rosso; e chiamarono la parrucchiera, nel mezzo dello stupore delle altre degenti». Al riguardo nel suo Psicoanalista senza muri, diario da una istituzione negata, Paolo Tranchina (anch’egli operante ad Arezzo) sosteneva come giorno per giorno si dovesse cercare di «dare un senso a comportamenti apparentemente senza senso».
C’è voluto comunque oltre un decennio perché quel luogo venisse gradualmente chiuso. Un lungo percorso dove, come ci descrivono gli psichiatri Paolo Serra e Cesare Bondioli, fra le prime azioni ci fu «il superamento di ogni barriera e forma di contenzione; a cominciare dall’abbattimento delle pareti dentro le quali erano segregati ventiquattr’ore su ventiquattro, e privati di ogni dignità, i cosiddetti ‘inquieti’». Condizioni ben narrate da Fabrizio, l’attore che nella Tovaglia impersona un ex infermiere di quell’inferno.
La più giovane, Sandra Rogialli, ci riporta invece di aver svolto il suo volontariato prelaurea in psicologia proprio ai Tetti Rossi, seguendo minori che erano stati ricoverati in quanto considerati «pericolosi per sé e per gli altri» o per «pubblico scandalo». Per poi andare ad esercitare la professione di psicoterapeuta sul territorio nei servizi di salute mentale dediti a superare quelle «scuole speciali» e «classi differenziali» che Basaglia, nell’articolo per Pasolini, aveva definito «ghetti per bambini».
LA «CLINICA DEI PAZZI» venne definitivamente sigillata nel 1989 e oggi ospita la sede aretina dell’Università di Siena. Che a ricordo ha recentemente allestito nei locali della provincia di Arezzo la mostra Arte ai margini, dove appaiono numerosi dipinti realizzati fra il ’58 e il ’78 dai pazienti durante il loro internamento. A partire da Livio Poggesi che scrive di suo pugno: «questi periodi di alto e basso prendono quasi tutti nella vita, ma come a me è una cosa incredibile, mortali come mi prendono. Comunque spero di stare benino e che questi fatti non mi succedano più ma restino solo nei miei disegni che si possono vedere nei miei diari».
La Tovaglia a Quadri aveva già dedicato l’edizione del 2005 a 44 Matti, richiamando il trasferimento durante il passaggio del fronte (per ragioni di sicurezza e protezione) dei pazienti dal manicomio di Arezzo (troppo adiacente la stazione ferroviaria) al Castello anghiarese di Galbino – tranne, naturalmente, Adalgisa Conti che fu invece spostata al manicomio di Siena. Nell’agosto di quello stesso anno destino volle che il marito Probo, il quale l’aveva fatta internare, rimanesse vittima dello scoppio di una mina lasciata a tempo nella caserma dei carabinieri di Anghiari dai tedeschi durante la loro ritirata (dove Palombini era detenuto per essere un acceso militante fascista).
E ALLORA TORNA alla mente l’articolo di Basaglia e Pirella su quella triste pagina 4 di Paese Sera, tutta dedicata a Pasolini, dove appaiono pure gli omaggi di Eduardo de Filippo, Cesare Zavattini, Lea Massari, Michelangelo Antonioni…
Un’epoca lontana quella, in cui Franco Basaglia affermava che «salvo casi sporadici la follia è il prodotto della società e delle sue regole costrittive» e che «una società, per dirsi civile, dovrebbe accettare sia la ragione come la follia». Mentre oggi i servizi territoriali di sanità mentale – laddove esistano – sono sempre più precari, qualcuno in Parlamento manifesta nostalgie paventando la riapertura di «strutture per i malati di mente». In tempi di sempre più crescente smania di «contenzione» dello stato di diritto e delle libertà democratiche.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento