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Massimo Florio: «Abbiamo regalato la ricerca pubblica alle imprese»

Massimo Florio: «Abbiamo regalato la ricerca pubblica alle imprese»Il Serum Institute of India di Pune – Ap

Brevetti «Le aziende farmaceutiche hanno fatto solo l’ultimo miglio della ricerca, subappaltandolo spesso ad altre società che lavorano su contratto. E poi ci hanno messo la capacità produttiva e la logistica». Intervista all’economista Massimo Florio dell’università Statale di Milano, che il 16 dicembre presenterà al Parlamento europeo la sua proposta di un organismo su modello dell’Esa, con laboratori propri o una struttura decentrata

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 28 novembre 2021

Nella lotta alla pandemia, l’arrivo di diversi vaccini nel giro di un anno è sembrato a molti un miracolo. Ma è un miracolo riservato solo a una parte del mondo, quella più ricca, e che potrebbe essere vanificato da una variante emergente nella parte del mondo rimasta scoperta. Sono i rischi che si corrono quando si affida la salute globale alle strategie delle imprese farmaceutiche.

L’economista Massimo Florio insegna all’università Statale di Milano e per Laterza ha appena pubblicato La privatizzazione della conoscenza, in cui mostra come la ricerca pubblica possa essere strategica in campo farmaceutico, ma anche nello sviluppo “green” e nel campo dei Big Data.

Prof. Florio, allora anche sui vaccini non è andato tutto bene?

È evidente che non sta funzionando il sistema della proprietà intellettuale, che premia con i brevetti chi controlla una tecnologia. Le imprese hanno fatto solo l’«ultimo miglio» della ricerca sui vaccini, spesso subappaltandolo ad altre società che lavorano su contratto. E poi ci hanno messo la capacità produttiva e la logistica.

C’erano alternative?

Il National Institutes of Health (Nih), la principale organizzazione di ricerca pubblica statunitense, sarebbe potuto andare fino in fondo nello sviluppo di un vaccino, brevettarlo e poi negoziare la produzione con il migliore offerente. Se il governo Usa fosse detentore del brevetto, oggi le aziende farmaceutiche agirebbero da fornitori ma sarebbe la politica a determinare prezzi, quantità e distribuzione globale. Invece durante l’amministrazione Trump fu deciso di fermare lo sviluppo e sottoscrivere contratti senza condizioni con le imprese. Non è solo una questione economica, anche se i prezzi dei vaccini li pagano i contribuenti. Il problema è che le imprese vendono a 25 dollari a dose un vaccino che, secondo le stime dell’Imperial College di Londra o di Oxfam costa circa un dollaro e mezzo. Così mezzo mondo ne rimane tagliato fuori e emergono nuove varianti. Un processo previsto da qualunque virologo, dato che un virus a Rna come il coronavirus è soggetto a mutazioni e ha pochi meccanismi di correzione.

Dunque il dibattito sui brevetti è davvero rilevante?

Biden ha annunciato una svolta, dichiarandosi favorevole a una moratoria sui brevetti relativi ai vaccini. Può sembrare sorprendente, ma Biden ha come consulente Anthony Fauci, capo del Niaid, l’istituto appartenente al Nih in cui è stato condotta una parte dello sviluppo del vaccino a mRna. E sa che Moderna, e probabilmente anche BioNTech, ha avuto la licenza a titolo gratuito per l’uso di quelle ricerche. Dunque il governo Biden dispone di leve negoziali. La richiesta dell’Nih affinché sia riconosciuto il suo ruolo nel brevetto sul vaccino Moderna, che dura vent’anni, è forse tardiva ma importante: afferma che la proprietà intellettuale pubblica non si può acquisire gratuitamente. La vicenda del vaccino a mRna è un perfetto esempio del fatto che questo meccanismo non ha nulla di miracoloso: prima 20 anni di investimento pubblico nella ricerca, poi 18 miliardi di finanziamenti pubblici e infine autorizzazioni rilasciate in pochi mesi. Ora chi è titolare del brevetto ha 19 anni di monopolio e questo aumenta a dismisura il valore dei farmaci e delle imprese.

La moratoria sui brevetti richiesta da India e Sudafrica avrebbe effetto?

Non da sola: serve il trasferimento tecnologico. Bisognerebbe conferire a un organismo pubblico la possibilità di andare avanti in proprio nella ricerca e nello sviluppo. È impensabile che lo faccia l’Oms, che è un’istituzione debole. La mia proposta è che lo faccia un’infrastruttura di ricerca europea analoga all’Nih, che possa sviluppare una filiera di vaccini e farmaci.

In passato ci sono stati altri esempi di ricerca pubblica in campo farmaceutico, chimico, energetico. Non tutti positivi.

Il modello a cui io penso assomiglia più al Cern, all’Agenzia Spaziale Europea (Esa) o allo European Molecular Biology Laboratory che non alle vecchie imprese di stato. La differenza? Quelle infrastrutture di ricerca sono fortemente orientate da missioni tecnologiche e scientifiche e governate dalla comunità dei ricercatori: la direttrice del Cern Fabiola Gianotti non è stata nominata da un ministro, la sua leadership è stata espressa dalla sua stessa comunità. In campo medico-sanitario questo non è mai accaduto.

È solo un’idea?

È una proposta concreta, che il 16 dicembre presenterò al Parlamento Europeo con diverse opzioni. Si può pensare a un’infrastruttura di ricerca con laboratori propri o a una struttura decentrata. E questa organizzazione potrebbe occuparsi esclusivamente di malattie infettive o anche di altre emergenze sanitarie. Il modello a cui mi riferisco assomiglia all’Esa, che lavora per “missioni” nel campo della ricerca spaziale: le sue missioni potrebbero essere un vaccino contro tutti i coronavirus, ad esempio, o un farmaco contro la tubercolosi resistente agli antibiotici. Servirebbe un trattato sovranazionale in cui l’Unione figurerebbe come promotore ma aperto anche a Stati che non ne fanno parte come Regno Unito, Svizzera o Norvegia. L’infrastruttura di ricerca avrebbe un orizzonte di 30 anni, l’ambizione di perseguire un centinaio di missioni e un budget che, a seconda delle opzioni, potrebbe avvicinarsi a quello dell’Esa, 4-6 miliardi di euro l’anno. Le missioni sarebbero negoziate tra istituzioni politiche e comunità scientifica. Per preparare questo rapporto abbiamo intervistato oltre 50 esperti internazionali, e c’è un consenso altissimo su quali siano le priorità per la ricerca medica attuale.

Perché l’Italia non è riuscita a sviluppare un vaccino, mentre Cuba sì?

Non conosco in dettaglio il caso italiano, ma mi è parso velleitario dall’inizio. Per due ragioni: il vaccino italiano si può anche fare, ma significa arrivare fino in fondo alle ricerche e servono notevoli investimenti. Il governo italiano non era pronto e forse è anche giusto così: perché puntare sulla scala nazionale e non su quella europea? Poi c’è l’aspetto produttivo: i pochi impianti dotati dei bioreattori necessari alla produzione dei vaccini avrebbero dovuti scontrarsi con una burocrazia faticosissima prima di ottenere le autorizzazioni. Cuba ha una storia di eccellenza nel campo, di grandi investimenti sulla ricerca medica e sui farmaci. È una sciagura che Cuba sia rimasta isolata, perché in un altro contesto internazionale avrebbero potuto avere un impatto su una scala molto più rilevante.

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