«Scrivo da sempre. È da quando ho 18 anni che mando i miei lavori in giro: sceneggiature teatrali, racconti, monologhi. Per vent’anni ho ricevuto solo rifiuti». È il 2019 e Cash Carraway ha 38 anni quando in Gran Bretagna il suo romanzo d’esordio, Skint Estate, diventa rapidamente un caso letterario.

La grande opportunità arriva per caso, come nelle migliori storie di riscatto: una editor della casa editrice britannica Penguin Random House assiste a uno spettacolo teatrale underground, il monologo spietato di una donna inglese working class. Rimane colpita e decide di ingaggiare l’autrice della sceneggiatura per la scrittura di un memoir. Prima di allora Carraway era solo una madre single come tante, una donna in lotta per la sussistenza, nei vorticosi bassifondi di Londra.

Dopo questa opportunità, oltre ad aver pubblicato il suo primo romanzo è diventata anche sceneggiatrice di una serie di successo per Bbc e Hbo, Rain dogs, e attualmente sta lavorando a un nuovo prodotto televisivo. Skint Estate è uscito in Italia nel 2023 per le edizioni Alegre con il titolo La porca miseria (pp. 352, euro 18) nella traduzione di Alberto Prunetti, curatore della collana «Working class» che ospita il volume e interprete di una ritrovata attenzione verso la letteratura che origina da contesti economici svantaggiati.

La porca miseria è un testo ringhioso, sfrontato e toccante. Povertà e violenza sono descritte senza tentazioni moraliste e senza un’ombra di vittimismo.

Nella prima pagina del suo memoir, in una nota c’è scritto che si tratta di un libro fatto per essere letto ad alta voce. Cosa significa?

La porca miseria è un libro di satira e seguendo questa traccia ci tenevo a risultare arrogante, in un certo senso puerile già dalle prime righe. Il senso è: probabilmente non ti piacerà questo libro, ma in caso contrario gridalo forte. Soprattutto leggilo a chi non vuole ascoltarlo. È un mio modo di sfidare il pubblico, come se li costringessi a sentire un orribile disco punk che massacra le orecchie. Sapevo che le persone avrebbero amato o odiato questo libro, senza vie di mezzo, e con quella nota ho voluto giocare su questa polarizzazione.

Nella letteratura working class è frequente imbattersi in una cifra autobiografica, talvolta per oltrepassare il racconto che le classi agiate fanno della povertà. Questo però implica una forte esposizione di sé.

Le persone si connettono più facilmente con ciò che è reale, anche a me piace sapere gli aspetti biografici dei miei autori preferiti, ma il problema è che ciò che scrivi finisce per definirti. Una tua esperienza diventa improvvisamente ciò a cui tutti pensano quando pensano a te.

Quando mi hanno proposto di scrivere una serie inizialmente doveva essere un adattamento del romanzo, all’inizio ho accettato ma poi ho cambiato idea. Non volevo essere ancora una volta definita dal mio vissuto personale. Spesso l’unica strada per gli autori working class è quella di esporre la propria vita. Quella scritta da noi non viene considerata letteratura ma un modo per aiutare il pubblico a «capire cosa si prova» ad essere poveri o emarginati. Sembra che queste opere debbano avere un intento pedagogico più che dei meriti letterari.

La verità è che quando ho esordito con La porca miseria non ero affatto considerata una scrittrice, ma «un personaggio». Come qualcuno diventato celebre per delle storie scabrose raccontate a un tabloid.
Per questo non credo che scriverò più nulla di autobiografico. Forse il punto è cercare di nascondere sé stessi, in modo più consapevole, dietro le proprie opere, in Rain dogs ho cercato di fare questo.

L’esposizione della vita privata ha comportato anche altre conseguenze?

Dopo l’uscita del memoir sono stata messa sotto osservazione. È uscito un articolo sul Guardian in cui veniva messa in dubbio la mia provenienza working class. Si diceva che in realtà venivo da una famiglia privilegiata e che avevo finto di essere povera per tentare il successo. I giornalisti hanno contattato qualsiasi persona che poteva conoscermi per scandagliare ogni aspetto del mio passato. Hanno contattato anche persone che avevo allontanato dalla mia vita per motivi di sicurezza e così facendo mi hanno messa in pericolo. Sono stata costretta a cancellare il tour del libro e alcune apparizioni televisive per tutelare me e mia figlia. Tutto perché un giornalista non credeva che qualcuno come me potesse scrivere un libro.

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Nel suo libro è presente una materialità sensoriale, con odori, consistenze, liquidi. Scrive, ad esempio, di come si è trasformata la sua vagina dopo il parto. Il corpo, soprattutto quello femminile sembra ancora difficile da raccontare fuori da una cornice erotica e sessualizzata.

Penso che la letteratura working class sia spesso scatologica, viviamo nel degrado e a volte ci piace raccontare storie sordide per scandalizzare l’audience, ma oltre a essere cruda e perversa penso che la mia narrazione sia anche molto femminile. Ho cercato di raccontare a tutto tondo la mia esperienza di donna working class, il parto è stato un pezzo importante di questa esperienza, i fluidi corporei sono ancora un’altra parte e mi viene naturale parlare di queste cose. Non è una scelta intellettualizzata, è semplicemente come vivo il mio rapporto con il corpo. Forse il fatto di aver lavorato tanti anni negli strip club, esponendo l’intimità, ha normalizzato per me la dimensione pubblica di questi temi. Per molti è considerato volgare, ma è volgare accettare i nostri corpi e rispettare il modo in cui funzionano? Non credo lo sia, ritengo invece che dovremmo parlarne più liberamente. Di corpi e di vagine, anche. Ci si aspetta che le donne mantengano la riservatezza sui propri corpi, come qualcosa di cui vergognarsi. Per questo ancora nel 2023 nominare la vagina risulta disturbante.

In che modo ha lavorato al testo di «La porca miseria» e quale confronto ha avuto con la casa editrice durante il processo di scrittura?

Il primo manoscritto che ho consegnato era in stile Bukowski, dissacrante e godereccio, poi dalla casa editrice mi hanno chiesto di correggere il tiro e di soffermarmi di più su come le politiche del governo avevano condizionato la mia vita. Queste parti così esplicitamente politicizzate sono quelle riuscite peggio, posticce e poco autentiche.

Non volevo entrare in questo campo perché non sono politicizzata, il massimo del mio impegno è disprezzare i Tories, ma solo perché sono figlia di immigrati irlandesi che odiano i Tories. Mi hanno detto «se li odi allora scrivilo», ma nel libro viene fuori come qualcosa di completamente slegato dal resto della narrazione. L’ho fatto ma non ero d’accordo, penso non ci fosse nessun bisogno di esplicitare una critica politica, primo perché non è nelle mie corde e secondo perché indeboliva la narrazione facendomi risultare molto ovvia.

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Ultimamente sono usciti diversi prodotti televisivi che raccontano storie ambientate in situazioni di indigenza. In alcuni casi anche incentrati su storie di donne e madri.

Si ho visto Maid (serie Netflix tratta dall’omonimo romanzo di Stephanie Land, ndr) e l’ho trovato un po’ irritante, mi è sembrato una narrazione della working class molto edulcorata, che presta il fianco al poverty porn. La protagonista è tratteggiata come una ragazza buona e talentuosa che superando le avversità riesce a realizzare i suoi sogni. Personalmente amo più gli autori scomodi e i personaggi antipatici, li trovo più realistici ed emozionanti. Siamo esseri imperfetti, prendiamo decisioni sbagliate, a volte facciamo male agli altri. Nel mio libro ho fatto una scelta di autenticità. Una libertà che non è facilmente concessa agli autori working class.