Verso Giove senza ritorno, sci-fi di Martin MacInnes
In un saggio purtroppo mai tradotto in italiano, Thomas M. Disch – uno dei più sofisticati e ironici autori di fantascienza – proponeva come simbolo del genere l’astronave, alludendo all’arcinoto impero galattico di Isaac Asimov, (nelle pagine del quale ricorrono per l’appunto il sole e la nave spaziale), ma riferendosi anche alla componente maschilista e decisamente fallica incarnata dalla starship (la nave delle stelle), aspetto esplorato da Norman Spinrad in un romanzo genialmente dissacrante, Il signore della svastica, nonché da Thomas Pynchon nel suo capolavoro L’arcobaleno della gravità.
D’altronde, la critica più avveduta sulla fantascienza ha da tempo evidenziato come l’avventura nello spazio, e più in generale tutte le storie in cui si raggiungono pianeti extrasolari, che vengono esplorati e dove non di rado si pianta dimora (talvolta trasformandoli a imitazione della Terra), si prestano a una lettura in chiave colonialista: non a caso Asimov – che scrive in un paese al tempo stesso ex-colonia e centro di un impero – radica la sua trilogia in un impero galattico, modellato su quello romano, ma ideato nel cuore del XX secolo, il «secolo americano».
Ora, di una versione aggiornata del viaggio spaziale è autore Martin MacInnes, nel suo ultimo corposo romanzo, Ascensione (traduzione di Daniele A. Gewurz e Isabella Zani, Sur, pp. 464, € 22,00), uscito lo scorso anno nel Regno Unito e molto premiato. Tuttavia, leggere che il romanziere di origine scozzese sarebbe – come ha scritto il Times – «il migliore scrittore sperimentale oggi in circolazione», lascia un po’ interdetti: per quanto indubbiamente ben scritto, dotato di una marcata individualità stilistica che non dev’essere stato facile rendere in italiano, e di ambizioni filosofiche, il romanzo ha contratto, tutto sommato, evidenti debiti con una tradizione radicata nella space opera degli anni Trenta e Quaranta, rinnovata da Kubrick in 2001: Odissea nello spazio per poi arrivare ai risultati di Nolan in Interstellar.
Come in Odissea, anche nel romanzo di Martin MacInnes troviamo un viaggio che raggiunge Giove e prosegue oltre l’infinito (nella fattispecie, arriva al limite estremo del sistema solare); e come in Interstellar, il viaggio parte da una terra gravemente deteriorata, anche se il disastro ambientale non è mai preso di petto, bensì suggerito da una serie di accenni, dettagli, commenti. Il titolo originale, In Ascension, nasconde un gioco di parole che si riferisce sia alla ascesa nello spazio della Nereus, astronave dalla propulsione innovativa (forse troppo avanzata per il nostro livello di sviluppo tecnologico, forse suggerita ai suoi costruttori da qualcuno o qualcosa che non risiede su questa Terra), sia all’isola di Ascensione, dove è ambientata la quarta parte del romanzo.
Nel titolo si può anche cogliere una metafora dello sviluppo della vita sul nostro pianeta, che dal mare dove si era originata è risalita sulle terre emerse, fino a spiccare il volo verso le stelle, ciò che avviene nel romanzo di MacInnes; e cruciale importanza riveste il passaggio dai procarioti (i batteri) agli eucarioti (cui appartengono tutti gli organismi pluricellulari, dai funghi all’Homo sapiens sapiens), passaggio descritto nel romanzo tra le righe di quella che sembra quasi una divagazione, mentre ha, in realtà, una importanza fondamentale per la conclusione del libro.
MacInnes immagina che gli astronauti lanciati oltre il sistema solare siano tre, come nelle capsule Apollo; ma qui c’è anche una donna a bordo, Leigh, biologa marina esperta di alghe, le stesse alghe che coltivate sulla Nereus assicureranno cibo e ossigeno; in ossequio ai tempi nuovi, è lei a raccontare la storia, derivandola dalla sua vita privata (tanto che all’inizio sembra quasi di non trovarsi di fronte a un romanzo di fantascienza). Veniamo così a sapere molto della famiglia di Leigh, del padre violento e manesco, della madre matematica distante e taciturna, della sorella troppo diversa da lei – e questa attenzione così insistita ai sentimenti (o alla loro mancanza) ha un effetto spiazzante su chi legge, perché non riesce a ricombinarsi con la storia della carriera di Leigh, che la porta, passo dopo passo, quasi involontariamente, a imbarcarsi in una missione, facilmente destinata a rivelarsi senza ritorno.
Più interessante, e anch’esso segno dei tempi, il fatto che il programma Proscenium I, a differenza dello storico programma Apollo, non sia gestito da un governo ma di fatto da una multinazionale, la Ircos, che opera come fosse una nazione, ma senza i vincoli che altrimenti sarebbe obbligata a osservare, dimostrando una splendida indifferenza al valore delle vite umane. Morale della favola: è più facile immaginare un viaggio ben oltre l’orbita di Plutone che la fine del capitalismo.
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