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Amianto, la strage silenziosa dei marittimi

Amianto, la strage silenziosa dei marittimi

Inchiesta Sono innumerevoli i morti da amianto tra chi si è imbarcato sulle navi e tra i lavoratori della cantieristica navale, specie nella manutenzione

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 9 novembre 2023

«Procida è un’isola di 10 mila persone, di cui circa 2 mila sono marittimi. Trenta o quaranta anni fa erano almeno il doppio. Come avvocato qui ho gestito 8 casi di mesotelioma, un tumore raro che colpisce una persona su 100 mila lavoratori. Dovrebbero essere stati 800 mila per giustificare il numero. E sono quelli che ho gestito io. Vedi tu…»

Le parole di Nicola Carabellese, presidente dell’Apin, associazione internazionale Asbestos Personal Injury Network Vittime Amianto Onlus nata nel 2012, sono emblematiche per descrivere il problema delle malattie da amianto nei marittimi, categoria che oggi in Italia conta circa 40 mila lavoratori ma che negli anni ’70 superava le 100 mila unità e che, coi lavoratori dei cantieri navali, forma un comparto vitale per il nostro paese, al 2° posto in Europa per trasporti via mare e al 3° per la cantieristica stando al Blue Economy Report 2022. A Procida, isola di navigatori, non ci sono cose impattanti da giustificare un così alto numero di malattie da amianto.

IL MESOTELIOMA PLEURICO È UN TUMORE raro che colpisce la pleura, il rivestimento del polmone. Studi scientifici hanno dimostrato che è correlato all’amianto – il cui utilizzo è stato bandito in Italia nel 1992 – e si presenta anche a distanza di 40 anni dall’esposizione. Malattie come il tumore del polmone possono dipendere anche da altri fattori che non fanno censire i deceduti tra le oltre 4mila vittime da amianto che si registrano ogni anno in Italia. I marittimi, considerando l’intera finestra di osservazione (1993-2018) e relativamente ai casi di mesotelioma con attribuzione di esposizione da origine professionale, su 2410 casi sarebbero solo il 2 per cento. Ma se consideriamo esposizioni inconsapevoli e una lunga assenza di sorveglianza sanitaria, una stima precisa non c’è. «La quasi totalità sono stati esposti – osserva l’avvocato Ezio Bonanni, presidente dell’associazione Osservatorio Nazionale Amianto – e i dati sono sottostimati. Tra i marittimi è in corso un’autentica strage».

UNO DEGLI SPAURACCHI PER CHI NAVIGA è un incendio a bordo. L’amianto, ignifugo, è stato utilizzato sulle navi già dai primi anni del secolo scorso per coibentare i motori a vapore. Poi il suo utilizzo si è esteso, fino a tappezzarle, soprattutto su navi mercantili, militari e da crociera. Le sollecitazioni continue a cui era sottoposta ogni imbarcazione, facevano sì che le fibre si perdessero a ciclo continuo in un luogo dove i marittimi stavano 24 ore su 24 con ambienti legati da sistemi di ricircolo dell’aria. Fino a quando è stato possibile utilizzarlo, l’Italia consumava più amianto di quello che riusciva a produrre nella cava di Balangero, la più grande miniera in Europa situata in provincia di Torino. L’amianto esportato o importato in Italia via mare, perlopiù da Sud Africa, Russia e Canada, è transitato principalmente attraverso i porti. E qui sono stati esposti anche facchini e addetti allo spostamento merci, personale di magazzino, di spostamento merci, comunicazioni, conduttori di gru e apparecchi di sollevamento. Questo anche perché fino ai primi anni ’70 sulle navi l’amianto veniva trasportato in sacchi di juta e lino, sostituiti poi con quelli in carta, juta sintetica e plastica fino ad arrivare successivamente all’uso dei container. Da questi sacchi, durante la navigazione i marittimi prendevano l’amianto da usare alla bisogna, impastato all’occorrenza tipo cemento con altri componenti.

«Quando si rompeva la coibentazione – ricorda Santo Manucra, imbarcatosi a 17 anni ed ex carbonaio e fochista sulle navi di Italia Società di Navigazione negli anni ’60 – bisognava decoibentare, quindi si creava un sacco di polvere in movimento, e rifare la coibentazione impastando l’amianto a mano. Oggi ho un ispessimento pleurico». Al riguardo si possono trovare storie come quella di un marittimo, che sulle navi aveva fatto il barista, colpito da una malattia correlata all’amianto e deceduto. Aveva respirato quotidianamente l’amianto, presente anche nelle guarnizioni della macchina del caffè. «L’amianto ce lo mangiavamo – ricorda Pietro Serarcangeli, ex conduttore di caldaie sulle navi militari e presidente dell’Afea Odv.ets, associazione famiglie esposti amianto di La Spezia – Se sono ancora al mondo è fortuna. Era ovunque ed eravamo senza protezioni. Questo ha prodotto i risultati che tutti conosciamo: centinaia e centinaia di morti».

I PRIMI INDIZI CHE L’AMIANTO FOSSE pericoloso risalgono al 1899 quando il medico londinese Hubert Montague Murray, notò alterazioni polmonari nell’autopsia di un lavoratore di una fabbrica di amianto. Poi vari studi ne confermarono la pericolosità ma l’industria andò avanti. Quella che potremmo definire come svolta, che influirà poi sui marittimi italiani, probabilmente arrivò tra il 1939 e il 1945 quando gli Usa decisero di ampliare di 6 mila navi la loro flotta militare impiegando 4 milioni di lavoratori che, a distanza di 30 anni, furono colpiti in massa – 14 morti per mesotelioma e un numero imprecisato per asbestosi ogni mille lavoratori – portando a bandire l’amianto in molti stati americani già dagli anni ’70 e tutelando i marittimi statunitensi. «Ma non gli altri. Sapevano che faceva male – sottolinea Carabellese di Apin che a causa di una malattia legata all’amianto ha perso il padre, deceduto all’età di 62 anni dopo anni di navigazione su navi di compagnie statunitensi – ma hanno lo stesso mandato italiani ed europei al macello. Qua hanno trovato terreno fertile: manodopera affamata con vocazione marittima. Gli hanno fatto fare lavori più disparati senza dire che l’amianto faceva male quando uno stesso marittimo statunitense lo sapeva». «Probabilmente hanno fatto un conto – aggiunge Silvio Boezio dell’Amva, associazione dei marittimi vittime di amianto – tipo: si ammaleranno quante persone? il 5 per cento? Il 2? Quante arriveranno a fare causa, lo 0,1? Quindi fatto il calcolo hanno scelto di esporre delle persone a un rischio gravissimo». Anche compagnie americane come Texaco, Exxon, Mobil, Socal, Gulf Oil o il gruppo Carnival, hanno avuto per anni marittimi europei sulle loro navi. «Negli anni ’80 – precisa l’avvocato Pierpaolo Petruzzelli che si occupa di cause dei marittimi italiani negli Usa – erano frequentissimi i viaggi di petrolio grezzo dal Golfo Persico alle coste americane. La cosa positiva di una causa negli Stati Uniti è che se la società imputata fallisce, c’è una cassa statale che risarcisce le vittime».

LA LEGGE ITALIANA DEL 1992 RICONOSCEVA risarcimenti a chi certificava l’esposizione continua per un periodo non inferiore ai 10 anni nello stesso luogo di lavoro. «In Italia è praticamente impossibile o altamente improbabile ottenere il risarcimento per i marittimi – chiarisce Bonanni, dell’Ona – che stipulavano a ogni imbarco un contratto diverso con più armatori, un fatto che permetteva anche il solito scaricabarile che non possono essere individuati i responsabili perché gli imbarchi sono stati decine con aziende diverse». In quella legge i marittimi non erano considerati: i benefici previdenziali erano previsti per gli assicurati con Inail mentre loro lo erano con Ipsema. «La legge del 2003 estende l’accesso anche ai non iscritti Inail – osserva Natale Colombo, segretario nazionale della Filt-Cgil – ma le modalità previste determinano l’esclusione dei marittimi: il lavoratore deve presentare un cv redatto dal datore di lavoro che certifichi l’esposizione all’amianto per un periodo non inferiore ai 10 anni e una concentrazione non inferiore alle 100 fibre/litro per 8 ore al giorno. La previsione di una durata almeno decennale dell’esposizione, oltre a non trovare riscontro nelle direttive comunitarie in materia, non tiene conto del fatto che, a differenza degli altri lavoratori, il personale sulle navi ha vissuto a contatto con le polveri per 24 ore al giorno». In più, aggiunge Colombo, «la Convenzione Solas ha vietato sulle navi mercantili l’uso di amianto o derivati solo dal primo gennaio 2011». Quindi mentre la legge del 1992 bloccava l’esposizione all’amianto per tanti lavoratori italiani, non lo faceva per i marittimi. «Le esposizioni sono proseguite – continua Bonanni – perché anche il vecchio naviglio, varato a fine anni ’90, aveva ancora amianto. È ancora presente in molto del nostro naviglio e soprattutto in quello dei paesi dove l’amianto non è vietato».

QUELLO DELL’AMIANTO SULLE NAVI non è un problema di altri tempi. «Ci sono navi prive di amianto con certificazione asbesto free – specifica Carabellese di Apin – ma ce ne sono in navigazione nel Mediterraneo che hanno fatto le bonifiche di contenimento, ovvero lo hanno ancora a bordo ma incapsulato. Sono sia italiane che straniere». In pratica è stato fatto un cappotto come nell’edilizia a ciò che si toglieva più difficilmente: tubi e simili rivestiti in amianto. La bonifica di una nave costa tantissimo e quindi, legalmente, c’è chi prova a limitare le spese. «L’incapsulamento è usato per le tubazioni rivestite di amianto negli edifici, in modo da eliminare la dispersione – prosegue il presidente di Apin – ma stiamo parlando di elementi statici. Su una nave perennemente sottoposta a vibrazioni, mare in tempesta, acqua salata… come fai con tutte queste sollecitazioni a contenere fibre mille volte più sottili di un capello e che sono invisibili a occhio nudo? Come fai a far sì che non si creino microfratture? Le respiri e basta. Poi il problema si ripresenterà tra 30 anni. I rilievi di sicurezza per accertarsi che la loro presenza sia sotto una soglia infinitesimale vengono fatti in porto, a nave ferma, e non si trova dispersione. Ed è normale: le sollecitazioni in quel momento non ci sono. Quindi possono prendere il mare. Non parliamo poi dei paesi dove l’amianto è ancora legale». Proprio nei paesi dov’è legale, spesso si ripropongono problemi. «Ci sono paesi dove l’amianto è utilizzabile come Cina, Russia, India, Canada o paesi dell’est – specifica Boezio di Amva – Il fatto è che se arrivi in un porto in Cina, devi fare una riparazione e acquisti delle guarnizioni, può esserci amianto. La sua presenza deve essere segnalata ma questo è un bel tema. E se ci sono conseguenze, le vedremo tra anni».

PER ANNI IN ITALIA SI È PARLATO del possibile picco dei malati, atteso per il 2020. Come sarebbe dovuto accadere anche a Monfalcone, città colpita dal problema amianto a causa della sua cantieristica navale che il minerale lo usava massicciamente. «Il picco è pura fantasia – spiega Paolo Barbina, direttore del centro regionale unico amianto del Friuli – sappiamo che non c’è stato e non ci sarà. I dati sono stabili. Il problema oggi è che stanno comparendo casi nei conviventi: mogli, intorno ai 70 anni, e figli sui 40-50 anni». Anche a Monfalcone, oltre agli ex lavoratori dei cantieri sta morendo di lavoro pure chi non ha lavorato l’amianto, magari perché venuto a contatto con gli indumenti lavorativi, come successo per tanti familiari dei marittimi. «La polvere era dappertutto e non c’era nessuna precauzione, né mascherine né niente – ricordava Carmelo Cuscunà, ex presidente Associazione Esposti Amianto e già nel 1957 coibentatore in ditte esterne per la Cantieri Riuniti dell’Adriatico poi entrato in Fincantieri come saldatore e marinaio, recentemente scomparso – C’erano mucchi di polvere di amianto anche sulla banchina. I primi tempi non si faceva caso, si lavorava, si correva sotto la fontanella a pulirsi le narici e la gola per mandar giù la polvere. A un certo punto respiravamo tutti male ma nessuno ci dava risposte. Ci dicevano casomai di bere del latte. Poi abbiamo fatto e vinto tante cause ma tanti sono morti. E noi eravamo andati a lavorare per dare il pane alle nostre famiglie, non per morire».

OGGI IL PIÙ ESPOSTO È CHI fa manutenzione. I lavoratori dei cantieri navali colpiti da mesotelioma registrati fino al 2018 sono il 7,4% del totale. Si tratta anche in questo caso di una cifra sottostimata. «Se la legge l’avessimo fatta venti anni prima – chiarisce Barbina – probabilmente avremmo oggi almeno eliminato il rischio sanitario. Ma la normativa in Italia è del 1992. Oggi non si lavora più l’amianto, è l’amianto che lavora l’apparato respiratorio delle persone. C’è un’unica cosa che possiamo fare: chiedere scusa alla gente. Scusate perché sapevamo ma non abbiamo voluto: a facili guadagni, non abbiamo voluto rinunciare». 01

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