Altri 18 mesi di truppe turche in Libia: ieri al parlamento di Ankara è giunta la richiesta di estensione dell’operazione libica avviata nel 2019, firmata dal presidente Erdogan. Che, nel documento, ha voluto sottolineare la preoccupazione turca per l’instabilità del paese nord-africano dovuta al rinvio a data da destinarsi delle elezioni che si sarebbero dovute svolgere il 24 dicembre scorso.

UNA PREOCCUPAZIONE pelosa, visto il ruolo di Ankara: sostegno militare al governo ufficiale di Tripoli (Gnu), all’epoca concesso in cambio di una «zona economica esclusiva» marina, dalla coste turche a quelle libiche, in cui andare alla caccia del gas rivendicato anche da Cipro e Grecia.

Al potere a Tripoli non c’è più al-Sarraj, ma Dabaiba. Cambia poco. La situazione sul campo resta incontrollabile. Venerdì scorso la capitale è stata teatro di scontri armati, colpi di arma da fuoco ed esplosioni che hanno intrappolato i civili per ore.

A confrontarsi sarebbero state, secondo i media libici, la Brigata Nawasi e la Support Stability Force, le due milizie che a metà maggio – rispettivamente – permisero l’ingresso a Tripoli di Fathi Bashagha e vi si opposero. Ovvero si scontrarono sul ruolo dell’uomo che, dopo aver rivestito il ruolo di ministro dell’Intero per al-Sarraj, lo scorso febbraio è stato nominato unilateralmente dalla Camera dei Rappresentanti di Tobruk primo ministro di un esecutivo (dal sapore di golpe) «alternativo» a quello di Tripoli.

È in questo clima che sabato Dabaiba è tornato a parlare dello spettro delle elezioni: sono presidenziali e parlamentari, ha detto, potranno accompagnare la Libia fuori dal caos.

MA UN ACCORDO tra est e ovest non c’è. Ci si prova: ieri al Cairo sono cominciati i colloqui costituzionali (i terzi) tra Tobruk e Tripoli, per superare l’impasse. Se dovessero di nuovo fallire, l’Onu si dice pronta a un «piano B», come riporta Agenzia Nova: un decreto del Consiglio presidenziale di Tripoli che indica al più presto le elezioni.