Assumono un contorno sempre più drammatico le condizioni di salute dell’attivista e scrittore egiziano Alaa Abd-el Fattah. Il dissidente condannato alla detenzione fino al gennaio 2027 con l’accusa di «diffusione di notizie false che ledono gli interessi del Paese», è dallo scorso due aprile in sciopero della fame: 150 giorni.

IN UNA RECENTE VISITA dei suoi familiari avvenuta il 16 agosto, Alaa ha comunicato alla sorella Sanaa Seif e alla madre Ahdaf Soueif di voler inasprire ancor più la protesta togliendo l’ultimo alimento solido rimasto nella sua alimentazione, riducendo in tal modo l’apporto energetico quotidiano al momento stimabile attorno alle cento calorie, garantite dall’assunzione di cibi liquidi e semiliquidi come latte e miele.

Alaa ha informato i familiari che è determinato ad arrivare a uno sciopero della fame completo che preveda unicamente l’assunzione di acqua e sali minerali necessari all’idratazione.

Come riportato da Sanaa, nonostante il palese deperimento organico, il fratello mantiene una netta determinazione nella prosecuzione del percorso intrapreso, come dimostrano le sue richieste riguardanti non solo la propria vicenda personale, ma anche quelle degli altri detenuti politici nelle carceri egiziane.

NEL FRATTEMPO, le modalità vessatorie nei confronti di Alaa proseguono. Nonostante inizio maggio sia stato trasferito dal carcere di Tora Maximum Security 2 a quello di Wadi al-Natrun, non gli è permesso avere accesso a nessun canale informativo, non può avere con sé giornali, libri e neanche carta e penna. Inutili in tal senso sono stati i tentativi della famiglia di poterglieli fornire, tutti prontamente rifiutati dall’istituzione carceraria.

Determinante è invece l’esito dell’impegno profuso dalle sorelle Sanaa e Mona e da Ahdaf Soueif: grazie alla loro presenza nelle reti sociali e all’incrollabile dedizione nel ricercare giustizia per Alaa, sono riuscite a portarne la storia all’attenzione della comunità internazionale.

Il suo valore intellettuale e politico e l’ingiustizia a cui è sottoposto dal governo condotto da al-Sisi, si è materializzato a giugno nella Camera dei Comuni grazie a Liz Truss, ministra degli Esteri britannica. Eventualità possibile perché l’intero nucleo familiare gode sia della cittadinanza egiziana che di quella inglese.

LA MOBILITAZIONE in favore di Alaa mette insieme livelli di partecipazione, attivismo e opportunità politiche difformi e rilevanti.

Oltre alle dimostrazioni di vario genere in suo favore che si registrano negli ultimi mesi in Inghilterra, Germania e Italia, alla presa di posizione pluriennale di Amnesty International e a eventi culturali di caratura planetaria come l’Edinburgh Book Festival, anche un appuntamento governativo globale come la COP27 ne subisce i riflessi.

La prossima conferenza sui cambiamenti climatici che si terrà tra il 6 e il 18 novembre a Sharm El Sheikh vede già la forte protesta interna delle ong egiziane escluse, che vedono così sfumare l’occasione di mettere in luce le contraddizioni del governo in materia sia di diritti ambientali che civili, in primis con la esemplare vicenda di Alaa.

La cui doppia cittadinanza, mai come in tale occasione, rischierebbe di essere un boomerang per la politica interna liberticida di al-Sisi, come sottolinea Paola Caridi, esperta di mondo arabo e co-fondatrice di Lettera 22: «Un passaporto considerato “forte”, e cioè occidentale, ha significato nel passato una capacità di pressione più rilevante su regimi che hanno un record negativo sui diritti umani, limitandone i comportamenti repressivi. E in caso di un negoziato serrato, anche la liberazione di persone detenute».

«IL PESO POLITICO di Alaa all’interno dell’Egitto è, però, un ostacolo fortissimo – continua Caridi – Rappresenta, suo malgrado, il simbolo del prigioniero politico e, allo stesso tempo, l’icona di un’opposizione credibile, laica, solida. Bisogna chiedersi, dunque, se il regime autocratico di al-Sisi ha così paura della sua figura da temerla persino in esilio. Il passaporto britannico di Alaa consentirebbe di liberarlo a condizione di accettare un esilio nel Regno unito».