A digiuno per Alaa Abdel Fattah, staffetta in Italia per l’attivista prigioniero
Egitto Dal 28 maggio già 75 persone - attivisti, sindacalisti, giornalisti - rinunciano al cibo per 24 ore in sostegno della battaglia dell'attivista egiziano in carcere. Un successo che non è estemporaneo ma che è il segno di una consapevolezza reale di cosa sia oggi l'Egitto di al-Sisi
Egitto Dal 28 maggio già 75 persone - attivisti, sindacalisti, giornalisti - rinunciano al cibo per 24 ore in sostegno della battaglia dell'attivista egiziano in carcere. Un successo che non è estemporaneo ma che è il segno di una consapevolezza reale di cosa sia oggi l'Egitto di al-Sisi
Domenica sera su Twitter Mona Seif, attivista egiziana e sorella di Alaa Abdel Fattah, è stata chiara. Dalla prigione Alaa può uscire solo in tre modi: con una grazia (di cui la famiglia ha fatto regolare richiesta, già protocollata), con un’espulsione in Gran Bretagna (di cui è diventato di recente cittadino e rinunciando alla cittadinanza egiziana) o da morto.
L’attivista e blogger egiziano è in sciopero della fame da 67 giorni. Una protesta che non è cessata nemmeno dopo il trasferimento, la scorsa settimana, nel nuovo carcere di Wadi al-Natrun.
Lì ha ricevuto almeno libri, carta e penna, ma dorme in una stanza illuminata artificialmente per 24 ore al giorno e non ha ricevuto risposta in merito alle denunce mosse in questi mesi di abusi nei confronti suoi e di altri prigionieri politici.
A SOSTEGNO della sua battaglia, del suo riprendere il controllo del proprio corpo con la scelta brutale del digiuno, dal 28 maggio si stanno spendendo in tanti in Italia: 75 persone, ma il numero cresce di giorno in giorno, rinunciano al cibo per 24 ore per attirare un po’ di attenzione sul più noto degli attivisti egiziani, uno che in galera ci ha trascorso nove degli ultimi dieci anni.
«L’idea è venuta in contemporanea a Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, e a me – ci spiega la giornalista Paola Caridi, curatrice del libro di Alaa Non siete stati ancora sconfitti – ed è stata dettata dall’urgenza, dall’empatia individuale. Ha poi trovato terreno fertile. Si andrà avanti fin quando le persone aderiranno. Ieri abbiamo toccato l’apice, con 15 persone a digiuno nello stesso momento».
Persone molto diverse tra loro, giornalisti, attori, arabisti, sindacalisti, attivisti (La lista completa e le modalità di adesione su invisiblearabs.com).
ABDEL FATTAH nel suo libro dedica una riflessione alla necessità di riappropriazione del corpo, di sottrarlo a chi gode del monopolio della violenza e che in una prigione è quello che decide cosa il detenuto mangia, quando mangia, quando può andare in bagno, «gesti che noi compiamo quando ne abbiamo bisogno».
Lo sciopero della fame – come raccontato spesso da altri prigionieri che hanno fatto la stessa esperienza – è il solo modo, in cattività, per togliere allo Stato il dominio sul proprio corpo.
«C’è una distinzione netta tra un digiuno fuori dall’urgenza, come quello religioso, e lo sciopero della fame che è nettamente politico, come per i detenuti palestinesi o quelli turchi e curdi morti in carcere – continua Caridi – Anche la pratica del digiuno gandhiano non è propria di Medio Oriente e Nord Africa ma non è nemmeno europea: l’unica esperienza simile fu quella dei detenuti irlandesi nelle carceri britanniche. Alaa, dopo il trasferimento a Wadi al-Natrun ha deciso di proseguire lo sciopero prendendo a modello i prigionieri palestinesi e decidendo di inserire 100 calorie, come nel modello gandhiano».
IL SUCCESSO che la staffetta italiana sta registrando non è estemporaneo. Si inserisce all’interno di una nuova consapevolezza rispetto alla questione egiziana, con un’opinione pubblica ormai conscia di cosa sia il regime del presidente al-Sisi.
«La sensibilità rispetto al suo sciopero della fame mostra quanto la questione egiziana vada oltre le vicende di Giulio Regeni e di Patrick Zaki, quanto sia una cosa che riguarda tutti. In particolare noi che ne abbiamo pagato il prezzo con un cittadino italiano rapito, torturato e ucciso e con un cittadino egiziano che studiava a Bologna e che non è ancora libero, ma in attesa di giudizio. È come se quello di Patrick fosse stato il secondo passaggio: l’empatia verso di lui, cittadino egiziano, sta consentendo oggi di essere solidali con una persona che non è cittadina italiana né lo diventerà. Alaa è il terzo passaggio dell’impegno politico italiano verso l’Egitto».
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