Il valico di Rafah lo scorso febbraio: palestinesi tentano di lasciare Gaza per l’Egitto
Internazionale

Palestinesi abbandonati nel limbo egiziano

Il valico di Rafah lo scorso febbraio: palestinesi tentano di lasciare Gaza per l’Egitto – Ap /Abed Rahim Khatib

Mediterraneo Centomila i gazawi rifugiati nel paese vicino. Ma i visti scadono: non possono lavorare, andare a scuola o farsi curare. Nemmeno tornare indietro. L’Anp ha chiesto al Cairo il rilascio di permessi temporanei, Al-Sisi non ha risposto

Pubblicato 2 giorni faEdizione del 26 ottobre 2024

«Potete darmi del pazzo ma la mia speranza è di ritornare nella Striscia». Hamed Yazji è un abitante di Gaza che è riuscito a raggiungere l’Egitto, come più di 100mila palestinesi dall’inizio dell’offensiva israeliana. Si trova al Cairo insieme a sua moglie e ai suoi figli. «Quasi tutta la mia famiglia però è a Gaza – ci dice – I miei fratelli, le mie sorelle, i miei cugini. Devi racimolare un sacco di soldi per comprarti il lusso di sopravvivere».

A differenza di molti altri palestinesi, aveva la possibilità di scegliere di uscire da Gaza ma ha esitato: «I miei fratelli mi dicevano di andare via ma non è stata una decisione facile. E in Egitto la vita non è certo una passeggiata. La stragrande maggioranza dei gazawi che vive qui è fuori dal sistema e si sostiene tra mille difficoltà».

FUORI DAL SISTEMA vuol dire essere di fatto degli irregolari. In Egitto il visto si può estendere fino a un massimo di 45 giorni, alla scadenza dei quali si è considerati illegali. Sopravvivere senza permessi significa rimanere in un limbo. Non poter tornare alla propria vita precedente e non poter cominciarne una nuova. Perché in mancanza di un visto non si può sperare di ottenere un lavoro, la patente, un conto in banca, l’assistenza sanitaria, l’istruzione per i propri figli. Persino cambiare valuta diventa impossibile.

Anche se registrati presso l’agenzia Onu che si occupa dei profughi palestinesi, l’Unrwa non ha nessun mandato in Egitto e l’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr) non può rilevarli senza il consenso del governo. Per il Cairo è una questione di sovranità.

Non hanno quindi accesso agli aiuti umanitari solitamente destinati ai profughi palestinesi né a quelli previsti per i rifugiati. In molti sopravvivono grazie alle donazioni delle associazioni locali. Oppure lanciano campagne crowdfunding su GoFundMe, come Kamel Ayyad, che nella Striscia era addetto alle pubbliche relazioni presso la chiesa greco-ortodossa di San Porfirio, a Gaza City. Il 19 ottobre del 2023 l’edificio religioso che ospitava centinaia di sfollati è stato bombardato dall’esercito israeliano.

«QUELLA SERA sono morte 18 persone – ci dice Kamel, tra cui sua nipote Lisa, suo marito Tareq e il loro figlioletto Issa di 12 anni – Quando la chiesa è stata distrutta la paura ci ha sopraffatti. Abbiamo capito che non esisteva più nessun posto sicuro e abbiamo scelto di andare in Egitto».

Grazie all’intercessione delle autorità religiose sono arrivati al Cairo: «Non avremmo potuto permetterci di pagare il viaggio». L’agenzia egiziana Hala, che gestisce in regime di monopolio gli ingressi privati, chiede 2.500 dollari per i bambini e 5mila per gli adulti che da Gaza si recano in Egitto. Centinaia di paganti sono tutt’oggi in lista d’attesa. Prima del 7 ottobre il costo era di circa 350 dollari a persona.

«Dal 13 novembre sono qui con mia moglie Bassema e le mie tre figlie di 20, 18 e 14 anni – prosegue Kamel – Mia madre e mio fratello non sono riusciti a uscire. Seguiamo le notizie di Gaza e passiamo le giornate a provare a metterci in contatto con i nostri cari».

La famiglia si è rivolta a diverse associazioni locali e all’ambasciata palestinese in Egitto ma non riceve un supporto vero e proprio: «In quasi un anno abbiamo avuto solo due pacchi alimentari e alcuni vestiti per le mie figlie. Ci sentiamo abbandonati». Senza visto le ragazze non possono andare a scuola: «Ciò che sogno è molto semplice: vedere le mie figlie finire gli studi e ricominciare la vita in un paese sicuro in cui chiedere asilo».

IL PRIMO MINISTRO egiziano Mahmud Fahmi al-Nuqrashi, in seguito alla Nakba palestinese nel 1948, dichiarò che concedere ai palestinesi un lavoro in Egitto avrebbe fatto dimenticare loro la propria patria. A parte un’importante parentesi di uguaglianza e integrazione durante gli anni di Nasser, la linea governativa egiziana è stata più o meno coerente con il principio proclamato da al-Nuqrashi.

Nonostante il concetto richiami una volontà di difesa dell’identità e della nazionalità del popolo palestinese dai tentativi israeliani di espulsione definitiva, nella pratica li costringe a una vita ai margini, con pochi diritti e quasi nessuna opportunità. L’ambasciatore palestinese in Egitto, Diab al-Louh, a maggio ha chiesto di concedere ai gazawi entrati nel paese dopo l’inizio della guerra, un permesso di soggiorno temporaneo per poter accedere ai servizi essenziali. Il presidente al-Sisi ha fatto orecchie da mercante.

E intanto le raccolte fondi diventano fondamentali anche per i gazawi che al Cairo hanno bisogno di cure mediche. È il caso di Tawfiq, uno dei “bambini farfalla” seguiti a Gaza dal Palestine Children’s Relief Fund (Pcrf).

L’epidermolisi bollosa è denominata anche «sindrome dei bambini farfalla», perché rende la pelle estremamente fragile e soggetta a bolle, piaghe e quindi infezioni. È una malattia genetica rara particolarmente diffusa nella Striscia.

Tawfiq ha appena compiuto dieci anni. Il 7 ottobre 2023 avrebbe dovuto sottoporsi a un intervento nella clinica di Gaza City ma con l’attacco di Hamas a Israele e l’inizio dei bombardamenti tutto si è bloccato. Il progetto del Pcrf è terminato e Tawfiq insieme a sua madre e ai suoi due fratelli ha cominciato a fuggire. Si sono spostati più volte, bevevano acqua di mare e non c’era modo di medicare e tener pulite le ferite del bambino. Grazie alla raccolta fondi organizzata da Gianna Pasi, un’infermiera italiana del Pcrf, la famiglia ha pagato i costi estorsivi dell’agenzia Hala e ora vive al Cairo.

IL PADRE DI TAWFIQ ha il passaporto egiziano ma vivono comunque in un sottoscala senza finestre e il bambino non può accedere alle cure necessarie. Anche procurarsi gli unguenti e le medicazioni è un problema in un paese che vive da anni in una forte crisi economica.

Ma si ritengono comunque fortunati, perché sono riusciti raggiungere l’Egitto prima che Israele chiudesse il valico di Rafah, lo scorso maggio. Non ha avuto la stessa fortuna Faiq, un altro bambino farfalla di dodici anni: è morto a Gaza per mancanza di cure.

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