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1982, la coppa dei sogni

Bimbi che giocano a calcio a GazaBimbi che giocano a calcio a Gaza – Zuma Press

Medio Oriente Da Nablus a Gaza è ovunque la foto di Dino Zoff che alza la coppa del mondo. Lì è nata la leggenda: venne dedicata alla Palestina. «In segno di solidarietà con la nostra sofferenza»

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 7 luglio 2024

È impossibile non notarla. A Betlemme, a Ramallah, a Nablus nelle botteghe dei barbieri o dietro il bancone di una drogheria, la foto scolorita in una cornice di legno o il ritaglio di un giornale vecchio di quarant’anni appiccicato al muro con il nastro adesivo. È l’immagine di Dino Zoff che alza la coppa del mondo del 1982, divisa chiara con i polsini blu e il trofeo dorato in mano.

È impossibile non notarla. Ne vedi una, due, tre, prima ti strappa un sorriso, poi ti alza un sopracciglio, ce ne sono davvero troppe. Alla fine domandi: cosa ci fa qua Zoff.

STA LÀ PERCHÉ l’Italia dedicò quella coppa al popolo palestinese. È la risposta che danno tutti in Palestina. Rispondevano così nel 1988, pochi mesi dopo lo scoppio della Prima Intifada, la sollevazione delle pietre. Rispondono così adesso: l’Italia ci ha dedicato la coppa del 1982.

Dino Zoff alza la coppa del mondo nel 1982
Dino Zoff alza la coppa del mondo nel 1982, foto Getty Images

La storia è riemersa sulle piattaforme social nei mesi bui della pandemia, quando il mondo vedeva i camion militari carichi dei cadaveri di Bergamo. C’era chi, a Ramallah, cantava Bella Ciao sventolando bandiere tricolori nella rotonda dedicata a Mandela; chi a Gaza tracciava la sua solidarietà sulla sabbia; e chi nei post ricambiava: vi siamo vicini, come quando voi ci dedicaste la coppa dell’82.

PER TANTI il ricordo è diretto. Zohair Androus studiava in Italia nei primi anni ‘80, lo ha scritto in un articolo quasi vent’anni fa: «Quell’estate Israele cominciò una campagna militare per cacciare “Fatah-land” dal sud del Libano. Guardavo con apprensione mentre Israele e i suoi alleati falangisti cristiani assediavano il mio popolo e guardavo i Mondiali. L’Italia vinse quell’anno. E poi, con un gesto pieno di emozione, il capo della Federazione calcio dedicò la vittoria ai palestinesi come segno di solidarietà per la nostra sofferenza. I palestinesi non lo dimenticheranno mai».

Dieci anni fa lo ricordò una delle più note artiste palestinesi, Emily Jacir: «Nel 1982, durante l’invasione israeliana del Libano e l’assedio di Beirut, l’Italia dedicò la sua vittoria ai Mondiali ai palestinesi… Il sostegno per la Palestina rimane forte nonostante lo spostamento politico a destra. Lo scorso giugno ad Arezzo, le star del calcio italiano si sono ritrovate insieme con i campioni dell’82 Paolo Rossi e Ciccio Graziani per raccogliere fondi per un campo da calcio a Betlemme».

A SCAVARE negli archivi, della dedica della Federazione non c’è traccia. Non ce n’è sui giornali dell’epoca, non ce n’è nella memoria di chi quella coppa la vinse. Eppure i palestinesi sono convinti, potere delle leggende e degli immaginari collettivi.
E invece no. Quella coppa è davvero dei palestinesi. Ma non gliela dedicò la Figc. Nel settembre 2012 un comunicato della Federcalcio dava conto di una targa-ricordo del massacro di Sabra e Shatila, a 30 anni dalla carneficina di 3.500 civili palestinesi nei due campi profughi di Beirut, per mano dei falangisti e dell’esercito israeliano guidato da Ariel Sharon. Durò tre giorni, dal 16 al 18 settembre 1982.

L’allora presidente della Figc Abete consegnò al vicepresidente dell’Uisp Manco una targa da portare a Beirut «in occasione dell’inaugurazione dei corsi di soft boxe in un centro per l’infanzia presso i campi profughi di Shatila». Il comunicato prosegue: la Figc «vuole rinnovare l’impegno assunto dall’ex presidente della Repubblica italiana Sandro Pertini che, appresa la notizia della strage, all’indomani della vittoria dell’Italia ai campionati del mondo si recò a Beirut e in accordo con la Figc portò con sé il trofeo alzato dagli Azzurri in Spagna. I palestinesi avevano festeggiato pochi mesi prima il successo dell’Italia e il presidente dedicò alle vittime della strage quella coppa».

LO RICORDA anche Carlo Balestri, all’epoca responsabile del dipartimento internazionale della Uisp: «Pertini si recò a Beirut per incontrare Arafat e, in accordo con la Figc, portò con sé la coppa».

Pertini andò davvero a Beirut e visitò Sabra e Shatila. Lo raccontò con voce stentorea nel messaggio di fine anno del 1983: «Il responsabile dell’orrendo massacro è ancora al governo in Israele. E quasi va baldanzoso di questo massacro compiuto… Una volta furono gli ebrei a conoscere la diaspora, cacciati dal Medio Oriente e dispersi nel mondo. Adesso lo sono invece i palestinesi. I palestinesi hanno diritto sacrosanto a una patria e a una terra come l’hanno avuta gli israeliti».

PERTINI giunse a chiedere l’espulsione di Israele dall’Onu. Era parte di una classe politica che aveva rapporti stabili con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che era spiccatamente filo-palestinese. Erano gli anni in cui si narrava dell’esistenza di un lodo Moro, il transito di armi e combattenti palestinesi su suolo italiano come protezione da eventuali attacchi.

Il 15 settembre 1982, il giorno prima del massacro, Yasser Arafat era a Roma nell’ufficio di Pertini e poi in quello di Craxi. Incontrò Berlinguer, parlò alla Camera. Fu accolto in Vaticano da Wojtyla.

LA STORIA si ingarbuglia, inciampa. È pressoché impossibile che Pertini abbia incontrato Arafat a Beirut dopo Sabra e Shatila. L’Olp era stata cacciata dal Libano invaso da Israele a fine agosto del 1982, per questo i falangisti commisero una strage tanto orribile in appena tre giorni: i campi erano senza difese, rimanevano solo civili disarmati. Li troveranno cadaveri i primi giornalisti che si avventurarono all’interno, come Robert Fisk. Disse di averlo capito dalle mosche, «milioni, e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore». Disse di aver camminato su pile di corpi senza rendersene conto.

Pertini non può aver detto ad Arafat, lì a Beirut, che quel trofeo era del suo popolo. Probabilmente lo fece a Roma, il 15 settembre 1982. O forse non lo disse al leader dell’Olp, ma lo disse ai rifugiati che incontrò a Sabra e Shatila l’anno dopo. E forse portò davvero la coppa con sé.

LE LEGGENDE non nascono mai per caso. Non c’è vera finzione dietro un mito così, la leggenda «nasce da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua nascita», scriveva Marc Bloch. Non è casuale, è radicata nell’immaginario collettivo, ma anche nella realtà da cui emerge. Nel 1944 lo psicologo sociale R. H. Knapp, in una prima categorizzazione del fenomeno, spiegò che le leggende più frequenti sono quelle che danno forma inconsueta, eppure non casuale, a concetti che altrimenti non sarebbero articolabili.

DAI CAMPI palestinesi plasmati dal dolore permanente dell’assenza fino alla Palestina storica, che quell’assenza altrui cerca di colmare, una leggenda non sarà mai capace di diffondersi e persistere per quattro decenni e due generazioni se quella storia non fosse successa davvero. Qualcuno – il presidente di una Federazione calcio, un presidente della repubblica o un portiere silenzioso – ha dato voce a un’intenzione condivisa: regalare una coppa del mondo al popolo delle tende.

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