Questa è la storia di una partita mancata. The great farewell, il grande addio, lo aveva ribattezzato la stampa anglosassone. Un omaggio, più che un banale incontro di tennis. A sua maestà Sir Andy Murray, fieramente scozzese, prima ancora che britannico, due volte trionfatore di Wimbledon, che a trentasette anni avrebbe desiderato calpestare l’amato prato inglese del Centre Court un’ultima dannata volta. Ma la suerte non sempre va nella giusta direzione.

“Il tennis senza Andy Murray è come l’estate senza vino. Wimbledon senza Murray è come le fragole senza la panna”, aveva scritto qualche giorno fa sul Guardian Weekly Kevin Mitchell, commentando l’annunciato ritiro del giocatore anglosassone, previsto entro il 2024. Forse dopo le Olimpiadi, “in un momento imprecisato quel vuoto arriverà come un rovescio d’addio sulla linea del Centre Court”.

In attesa di respirare quel vuoto c’era da organizzare un ultimo ballo, the last dance. Ma un infortunio recente aveva rimesso tutto in discussione.

Kevin Mitchell, the Guardian
“Il tennis senza Andy Murray è come l’estate senza vino. Wimbledon senza Murray è come le fragole senza la panna”

Reduce da una piccola operazione alla schiena, e da un corpo cronicamente affaticato, Murray ha tentato l’impossibile, tornare in campo in poco meno di due settimane, sostenendo di essere anche disposto a correre dei rischi. “Voglio solo sentire il brivido un’altra volta”, aveva dichiarato domenica in conferenza stampa, ma bastava osservarlo mentre lo diceva per intuire che si trattava più di un grido di dolore che di una speranza concreta.

Ieri mattina, dopo aver provato un’ultima volta, è stato costretto a dare forfait. Giocherà il doppio, con il fratello Jamie, ottimo doppista.

Andy Murray celebra la vittoria a wimbledon 2016 contro Raonic
Andy Murray celebra la vittoria a wimbledon 2016 contro Raonic, foto Kirsty Wigglesworth /Ap

Se Tim Henman è stato il Golden boy del tennis inglese, sempre sorridente, impeccabilmente elegante, sublime cultore del serve and volley, si era guadagnato il soprannome timbledon per la sua confidenza con i prati, una sorta di Hugh Grant con la racchetta, Andy Murray è sempre stato un personaggio più irrequieto, complicato, difficile da inquadrare, “a bit of strange”, per utilizzare una sua recente definizione. Ma anche un giocatore fenomenale.

Forse il migliore di tutta la storia inglese. Inutile qui scomodare Fred Perry.

Orgogliosamente nazionalista, nel 2014 si schierò a favore del referendum scissionista in Scozia con un tweet, “Let’s do this”, che provocò più di un malumore, è stato il primo anglosassone a divenire numero uno al mondo.

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Ma al di la dei meri numeri è stato l’unico in questi ultimi venti anni a riuscire a competere ad armi (quasi) pari con i tre mostri sacri del tennis, “riuscendo a trasformare in poker la trinità”, come disse una volta lo scriba più raffinato della storia del tennis.

Sally Bolton, amministratore delegato dell’All England Club, ha lasciato intendere che in futuro Wimbledon potrebbe dedicargli una statua. Ma onestamente sembra un tantino prematuro iniziare ora a parlare di simulacri.

Il pubblico avrebbe preferito un ultimo ballo. Magari il torneo di doppio ci riserverà qualche sorpresa.