Robinson e la spontaneità del giardino
Viride «Il giardino naturale», da Elliot
Viride «Il giardino naturale», da Elliot
Tra le molte rivoluzioni del gusto che scandiscono la storia del giardino c’è la vicenda del giardino naturale teorizzato e praticato a fine Ottocento dall’irlandese William Robinson in opposizione al nuovo formalismo di quello vittoriano sostenuto da Reginald Blomfield (Il giardino formale in Inghilterra, 1892). Essa muove e si afferma sullo sfondo di una critica morale anti-urbana, di un nostalgico ritorno alla terra – e alla natura – anche sull’onda delle idee di intellettuali come John Ruskin e William Morris, del movimento Arts and Crafts, dei preraffaelliti. Risponde anche a mutate condizioni economico-sociali: con il costo sempre maggiore di vetro e riscaldamento per le serre, e della manodopera nella conduzione dei giardini delle grandi tenute, per le quali è venuta meno la base di riferimento, mentre si affaccia un nuovo pubblico le cui finanze consentono piuttosto la coltivazione di piante rustiche e semi-rustiche, che non la sostituzione di specie delicate prevista a ogni stagione di un giardino in aiuole.
Siamo nel 1870. E nel suo Il giardino naturale Robinson riscopre, individua e indaga protagonisti e spazi del giardino in una combinazione per molti tratti inedita. Un libro infinite volte ristampato, anche, poi, con le meticolose illustrazioni realizzate di concerto con Robinson da Alfred Parson. Ora nuovamente per Elliot, e peccato senza che se ne circostanzi retroterra e attualità, com’è ormai uso corrente (pp. 82, € 20,00). Letteralmente, qui si tratta di Boschetti e arbusteti resi belli dalla naturalizzazione di piante esotiche resistenti, come recita il sottotitolo dell’edizione originale.
Il giardino naturale di Robinson si caratterizza proprio per il propugnato diffondersi, combinarsi e naturalizzarsi di piante rustiche – sia quelle esotiche che le autoctone, e qui anche i fiori britannici rari o da recuperare, ma di climi e habitat compatibili – da collocarsi in luoghi diversi dal giardino «tutto previsto e regolato», in condizioni che ne favoriscano l’adattamento per la crescita. Un naturale da non confondersi però con il selvatico, né con il pittoresco. Che vede invece l’apertura all’uso come giardino di luoghi altri. In un ampliarsi di possibilità, protagonisti, combinazioni.
Tra i vari tipi di giardino naturale vengono esplorati boschetti e sentieri, fossati e stradine ombrose, muri e rovine, rive di paludi, corsi e specchi d’acqua, frutteti. Dove rose selvatiche, caprifoglio, clematis siano liberi di impossessarsi di siepi noiosamente tosate e di drappeggiare alberi morti, dove tra l’erba si recuperano arbusti, erbacee perenni, bulbose. Dove sarà meglio perciò evitare di rasare così frequentemente l’erba e vangare le aiuole degli arbusti disturbandone le radici. Dove, soprattutto, liberandosi da «inutili e sgradevoli stravaganze geometriche», moltiplicare le possibili combinazioni di piante che possano naturalizzarsi e diffondersi, divenendo permanenti. Riunirle e associarle seguendo ciò che la natura fa. Osservando singolarità e processi, rispettando e ispirandosi alle loro abitudini di crescita, studiando aggregazioni spontanee di fiori selvatici, il loro coesistere per colonie e raggruppamenti. Accogliendo e integrando il cambiamento continuo. In ambienti, pur regolati, votati alla creazione di comunità vegetali viventi in un contesto progettuale in divenire.
Ispiratore di un gusto che privilegia l’uso della diversità della flora spontanea cosmopolita, Robinson propende insomma per un dialogo più stretto con il contesto e il paesaggio che riaddomestica natura con botanica e orticoltura in una successione graduata di nuove occasioni per il giardino.
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