3 luglio 2023. L’esercito israeliano lancia a Jenin l’incursione più violenta in Cisgiordania dai tempi della seconda Intifada, più di 20 anni prima. I palestinesi uccisi sono 12, tra cui tre civili, il campo profughi ne esce devastato, 500 famiglie sono costrette ad abbandonare le loro case per alcuni giorni. Ieri, un anno dopo, sette palestinesi, in prevalenza combattenti, sono stati uccisi a Jenin in un raid tra i più pesanti compiuti negli ultimi mesi da truppe israeliane portando, secondo i dati del ministero della Sanità a Ramallah, a 568 il bilancio di palestinesi uccisi in Cisgiordania, tra cui 136 minori, dal fuoco di soldati e coloni israeliani dall’attacco di Hamas nel sud di Israele lo scorso 7 ottobre.

Tra i sette morti di ieri ci sono anche due fratelli. I droni ormai sono tra le armi preferite dalle forze israeliane prima e durante i raid. Un aereo senza pilota ha colpito un gruppo di giovani alla Rotonda Awda. Poi è stata circondata e distrutta la casa di Asaad Hashash ad Harsh Al-Saada. I soldati hanno occupato le strade Haifa e Nazareth. Gli scontri a fuoco tra i giovani militanti della Brigata Jenin e le truppe israeliane hanno fatto alcuni feriti e ucciso due persone, tra cui un uomo di 54 anni, Mohammed Jabrin: è stato colpito da un cecchino mentre cercava di aiutare il figlio Ahmad, ferito anche lui da un tiratore scelto mentre dal terrazzo di casa osservava gli scontri in strada. Dopo quattro ore di guerra urbana, l’esercito israeliano è uscito da Jenin e il suo campo profughi lasciandosi alle spalle morti, feriti e danni alle infrastrutture. Nelle stesse ore decine di palestinesi venivano avvolti dal fumo dei gas lacrimogeni lanciati da soldati israeliani sul Monte Sbaih, durante le proteste contro l’avamposto coloniale di Evyatar a ridosso del villaggio di Beita, a sud di Nablus.

A nove mesi dal 7 ottobre e dall’inizio dell’offensiva israeliana su Gaza, si torna a parlare di cessate il fuoco nella Striscia e di uno scambio tra ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi. Difficile valutare se effettivamente si siano fatti passi in avanti. L’agenzia francese Afp riportava ieri sera che un dirigente di Hamas ha affermato che il suo movimento si aspetta «una rapida risposta israeliana probabilmente sabato mattina (oggi) alle sue nuove idee per fermare la guerra di Gaza». Una delegazione di Hamas guidata da Khalil Al Hayya avrebbe informato ieri a Beirut il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah che il movimento islamico palestinese intende raggiungere un accordo di tregua con Israele. Una soluzione gradita al partito sciita libanese che, pur affermando di essere pronto a una guerra con Israele – con cui combatte un conflitto di attrito da nove mesi lungo il confine –, ha più volte chiarito, anche ieri, di non cercare uno scontro totale con lo Stato ebraico e di essere solo «un fronte di supporto» ai combattimenti a Gaza. In ogni caso, Israele e Hezbollah ieri si sono di nuovo scambiati razzi e raid aerei. Un missile sparato dal Libano è caduto sulla città di Kiryat Shmona dove ha ferito un uomo.

Fonti dell’agenzia Reuters, sostengono che Hamas non chiede più come precondizione l’impegno di Israele a un cessate il fuoco permanente prima della firma di un accordo tra le due parti ed è ora pronto a discuterne durante la prima fase di sei settimane della tregua. Se confermato sarebbe una rinuncia considerevole da parte di Hamas che ha detto più volte che senza una tregua permanente immediata non discuterà dello scambio ostaggi israeliani-prigionieri palestinesi. Da parte sua Israele ripete che respingerà una tregua permanente e continuerà la guerra contro Hamas. Qualcosa di concreto però deve esserci perché il governo Netanyahu ha inviato a Doha, per colloqui con i mediatori del Qatar, il capo del servizio segreto Mossad, David Barnea (rientrato in serata a Tel Aviv). Nella maggioranza israeliana è già scattato l’allarme: la destra estrema ripete che farà cadere il governo se la guerra sarà fermata «prima della distruzione di Hamas». Invece il leader centrista Benny Gantz, uscito dal gabinetto di guerra nelle scorse settimane, ha fatto sapere a Netanyahu che sosterrà qualsiasi accordo utile a riportare a casa i 120 ostaggi. Un accordo lo vogliono le decine di madri di ostaggi israeliani che insieme a migliaia di sostenitori si sono radunate ieri in piazza Habima a Tel Aviv per la «Marcia del Grido delle Madri». «C’è un accordo sul tavolo ora», ha detto Shira Albag, madre di Liri Albag sequestrata il 7 ottobre «ci vogliono leadership e coraggio per firmare l’accordo. Dobbiamo riportare tutti a casa, ed è possibile».

Piangono ogni giorno le madri di Gaza per i loro figli uccisi, feriti, mutilati dai bombardamenti israeliani. Ieri ambulanze e squadre di soccorso hanno recuperato i corpi di quattro persone e diversi feriti dopo un raid aereo che ha colpito la casa della famiglia Bardawil a est di Gaza city. Nella stessa zona, a Shujaya, diverse case sono state distrutte dai soldati con gli esplosivi. Cinque morti – padre, madre e tre figli – per una bomba che ha colpito una abitazione a Jabaliya. A Rafah è stato ucciso un uomo sulla Salah Edin Road. Morti e feriti anche a Bani Suheila a est di Khan Yunis dove prosegue la nuova incursione israeliana. Il numero dei palestinesi uccisi a Gaza dal 7 ottobre è salito a 38.011, la maggior parte bambini e donne.