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Zelensky alla scoperta dell’America

Zelensky alla scoperta dell’AmericaZelensky durante una conferenza a Bruxelles – Ap

Gli Usa e la guerra Negli anni in cui si tengono elezioni presidenziali a Washington si decide ben poco. Se poi Congresso e Casa Bianca sono controllati da partiti opposti la paralisi è assicurata, quindi i fondi richiesti per continuare e intensificare la guerra non arriveranno

Pubblicato 11 mesi faEdizione del 16 dicembre 2023

«Dov’è la Vittoria?» chiede il nostro goffo inno nazionale. È quello che si domandano in questi giorni anche Biden, Zelensky e von der Leyen ma non sembra che la Dea sia puntuale all’appuntamento. Quella in Ucraina è una guerra di trincea che non farà passi avanti, né indietro, almeno per i prossimi quattro-cinque mesi.

Nel frattempo ci saranno altri morti, altri feriti, altre distruzioni. Andando in America Zelensky ha scoperto quello che già molti altri alleati degli Stati Uniti avevano capito prima di lui: negli anni in cui si tengono elezioni presidenziali a Washington si decide ben poco. Se poi Congresso e Casa Bianca sono controllati da partiti opposti la paralisi è assicurata, quindi i fondi richiesti per continuare e intensificare la guerra non arriveranno.

Al di là delle contingenze politiche del momento la realtà è che l’opinione pubblica americana non ama le guerre e le accetta solo quando sono iniziate da altri e minacciano direttamente il Paese. Alle classi dirigenti, invece, le guerre piacciono molto, giusto per far capire al resto del mondo chi è la superpotenza in carica, oltre che per giustificare l’elefantiaco bilancio della “difesa”, che supera quello degli altri dieci paesi più armati del pianeta messi insieme. La conseguenza di questa situazione è che i presidenti possono in effetti bombardare mezzo mondo con i più svariati pretesti, dal salvare gli studenti di medicina in un’isola caraibica come Grenada al neutralizzare inesistenti armi di distruzione di massa in Iraq, ma hanno difficoltà a mantenere un consenso sufficiente per operazioni militari durevoli. L’Iraq e l’Afghanistan sono state guerre tollerate dai cittadini solo grazie a un titanico sforzo di propaganda e, in entrambi i casi, alla fine gli alleati sono stati abbandonati a loro stessi.

Un po’ di storia: dov’è finito Ngo Dihn Diem, presidente del Sud Vietnam dal 1955 al 1963 e definito da Lyndon Johnson «il Churchill dell’Asia sud-orientale»? Nella tomba, dopo un colpo di stato approvato da John Kennedy. E dove è finito il suo successore Nguyen Van Thieu? Prima a Taiwan e poi a Boston, dov’è morto nel 2001.

Cos’è successo di Ahmad Chalabi, il professore iracheno che aveva lavorato a Chicago e al Mit? Era lui la principale fonte dell’amministrazione Bush sulla presenza di «armi di distruzione di massa» in Iraq, il pretesto per l’invasione del 2003. Avrebbe dovuto diventare presidente di un nuovo Iraq democratico ma rimase in carica appena un mese, poi fu sostituito da personaggi che avevano un peso politico maggiore a Baghdad. Fece in tempo a fare un breve turno come ministro del petrolio (nove mesi) per poi cadere nell’oblio.

Dove sono finiti Hamid Karzai e Ashraf Ghani, presidenti dell’Afghanistan rispettivamente per 10 e 7 anni? Karzai sembra essere agli arresti domiciliari nel suo paese, mentre Ghani si gode la vecchiaia negli Emirati arabi uniti.

Anche in America Latina essere amici degli Stati Uniti è un mestiere redditizio nel breve termine ma pericoloso nel lungo termine. I generali argentini godevano della simpatia dell’amministrazione Reagan ma dopo l’invasione della Falkland-Malvinas nel 1982 il capo della giunta Jorge Videla finì i suoi giorni in carcere, mentre altri sfuggirono a stento alla galera o alla fucilazione. Manuel Noriega lavorava per la Cia quando aveva ancora i calzoni corti ma questo non impedì all’amministrazione di Bush padre di invadere Panama nel 1989 e di portarlo negli Stati Uniti dopo un comico assedio all’ambasciata vaticana dove il dittatore aveva cercato rifugio. Il seguito furono 15 anni in un carcere federale americano per traffico di droga, altri anni in una prigione francese e infine la morte per un tumore al cervello mentre era agli arresti domiciliari.

Storie vecchie? Forse, ma non è andata meglio a Juan Gaido, l’ambizioso politico venezuelano autoproclamatosi presidente nel gennaio 2019, prontamente riconosciuto da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, rimosso dai suoi stessi sostenitori nel 2022 e oggi dimenticato da tutti (Nicolas Maduro, eletto presidente nel 2013, non ha mai lasciato la carica ed è sempre lì).

Non servono altri esempi, il meccanismo è sempre lo stesso: un sostegno iniziale, incoraggiamento e molte buone parole da Washington, una fase di raffreddamento dei rapporti quando diventa chiaro che gli obiettivi dell’alleato di turno non coincidono perfettamente con quelli degli Stati Uniti e, infine, l’abbandono quando il “migliore amico” non serve più. A volte viene spinto brutalmente da parte, come Diem o Noriega, più spesso semplicemente abbandonato al suo destino, come Chalabi e Ghani.

Non sappiamo quanto Zelensky sia convinto di poter mantenere il suo ruolo ma un’occhiata ai giornali americani gli avrebbe rivelato che un anno fa discutevano della vittoria finale e dello smembramento della Russia, oggi discutono se continuare a fornire armi e dollari o no. Anche uno sguardo ai sondaggi gli sarebbe utile: si vota il 5 novembre 2024 e Biden è molto debole tra i giovani, a cui non piace la sua politica filoisraeliana, e tra gli indipendenti, che sono ansiosi per colpa dell’inflazione e dubbiosi per la sua età avanzata. Se Biden viene sconfitto, il sostegno all’Ucraina finisce di botto. Certo, Trump deve affrontare quattro processi con 91 capi d’imputazione ma chi oserà condannare prima e mandare in prigione poi un candidato alla presidenza che gode del sostegno di metà del paese?

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