Zadie Smith e il macellaio
Barrington Watson, «La conversazione»
Alias Domenica

Zadie Smith e il macellaio

Scrittrici britanniche Ambientato nell’800 tra Inghilterra e Giamaica, «L’impostore» riscrive le origini del romanzo storico allargandone la prospettiva all’impero coloniale britannico: da Mondadori
Pubblicato 12 mesi faEdizione del 15 ottobre 2023

Secondo la classica periodizzazione di György Lukács, il romanzo storico moderno nasce agli inizi del diciannovesimo secolo, nel solco della tradizione realistica inglese, con Waverley di Walter Scott. Lukács vi rintraccia l’affermazione di un eroe contemplativo-passivo, di solito un esponente della middle class, che funge da intermediario tra istanze sociali diverse e rispecchia una grande crisi della società. La scelta di Zadie Smith di cimentarsi nel suo nuovo romanzo L’impostore (traduzione di Dario Diofebi, Mondadori, pp. 487, € 22,00) per la prima volta con questo genere letterario sembra dettata dalla volontà di ripercorrere – e per certi versi riscrivere – le origini del romanzo storico inglese, allargandone la prospettiva alla storia coloniale dell’impero britannico.

Ambientata nel corso dell’Ottocento tra Inghilterra e Giamaica, la trama prende spunto dalla vita dello scrittore William Harrison Ainsworth, che nella prospettiva di Lukács potrebbe corrispondere all’eroe passivo, retaggio di un’epoca che guarda al passato per fuggire dal presente. Oggi lo scrittore inglese è perlopiù dimenticato ma a suo tempo i suoi romanzi incontravano un grande successo popolare: il suo Jack Sheppard  – basato sulle imprese di un noto criminale londinese – vendette più copie di Oliver Twist, suscitando una vera e propria moda scandalistica, che spinse le autorità a proibirne ogni adattamento, nel timore che qualche lettore particolarmente suscettibile potesse emulare le gesta del protagonista.

La rapida ascesa di Dickens, «il vero poeta degli oggetti» che «aveva saputo rendere vitale e umano il freddo commercio e il triste culto delle cose», condannò all’oblio la narrativa sensazionalistica di Ainsworth, costretto a rintanarsi «in un passato remoto e leggendario» fatto di «intrighi di corte, re e regine, moschetti, pizzi, boiserie!», abbandonando le «storie di esseri umani, che lottano, soffrono, che mentono agli altri o a se stessi, crudeli oppure gentili. In genere entrambe le cose».

Il punto di vista adottato da Zadie Smith, lucidissimo e per molti versi anacronistico, coincide con quello di Eliza Touchet, governante e cugina acquisita dello scrittore, soprannominata «il Riccio» per la sua caparbietà. Figura energica e volitiva dotata di una sessualità prorompente e vissuta in modo conflittuale, Eliza è una abolizionista convinta e attenta osservatrice del proprio tempo. «Dio mi protegga dal voler mai scrivere un romanzo», pensa di fronte all’esempio del cugino e di quel Dickens che «era ovunque, come un miasma», contraddicendosi poi al momento di raccontare la propria storia.

Anche Zadie Smith, peraltro, disse al «New Yorker» che si era ripromessa di non scrivere mai un romanzo storico, prima di rendersi conto che «non tutta la narrativa storica propone necessariamente un ‘cosplay’ dell’epoca».

A catturare l’attenzione dell’autrice – e di tutti i personaggi dell’Impostore – è il caso Tichborne, «il tipo di scandalo che offre qualcosa per tutti i gusti», un fatto di cronaca che tra gli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento polarizzò l’opinione pubblica inglese: Arthur Orton, macellaio di Wapping, proclamò di essere in realtà Sir Roger Tichborne, il discendente di un’importante e facoltosa famiglia aristocratica, dato per disperso nel 1853 durante un naufragio. A supporto del pretendente, e a dispetto dell’aristocrazia, riluttante ad ammettere il parvenu tra i propri ranghi, si schierò la «working class» inglese, compreso il sottobosco variegato di povertà, prostituzione e delinquenza che costituisce il lato oscuro della società vittoriana. Proprio nelle descrizioni del processo intentato contro il presunto Tichborne, storicamente accurate e frutto di minuziose ricerche documentarie, L’impostore si sgancia dal genere storico così come lo descrive Lukács per riflettere in controluce un nodo centrale del nostro tempo, il paradosso emotivo della post-verità, inscritto già nella descrizione del corpulento e volgare pretendente: «Gli occhi acquosi rivelavano chiaramente che si trovava in una situazione più grande di lui; ma allo stesso tempo, quegli occhi suggerivano che all’uomo piaceva quella folla e che sarebbe stato disposto a credere a ciò che credevano loro se, dopo tutto, erano tutti così convinti che… E in effetti, alla fine, lui ci credeva eccome! Anzi, era uno scandalo che qualcuno osasse dubitare di lui! Eppure: e se lo avessero scoperto? Ma come avrebbero potuto, se lui era esattamente ciò che loro stessi dicevano?».

Working class hero acclamato dal popolo e appoggiato da arrivisti senza scrupoli, figura laida di impostore e ambiguo leader populista, ma al tempo stesso un uomo solo «intrappolato in una bugia che si allargava sempre di più», Orton/Tichborne catalizza le rivalse di diseredati e reietti, finendo per restare vittima del sistema che intende scardinare. Attorno al processo si sviluppa una vera e propria industria, con tanto di brocche, statuette e biscotti con il volto del pretendente, mentre accesi dibattiti politici e giuridici sulla legittimità delle sue dichiarazioni rimbalzano su giornali e pamphlet – e qui Smith strizza l’occhio al lettore contemporaneo, menzionando «pagine intere dedicate al movimento anti-vaccinazioni». Posta di fronte all’esigenza morale di elaborare una «teoria della verità», Eliza è affascinata da Andrew Bogle, un anziano ex schiavo giamaicano che in passato era al servizio della famiglia Tichborne e che potrebbe smascherare l’impostore. Enigmatica figura storica di grande dignità, Bogle è il personaggio più affascinante del romanzo: durante il processo resta in un silenzio composto, confermando agli inquirenti senza alcuna esitazione né contraddizioni che il pretendente è effettivamente chi dice di essere. Invece di accogliere con scetticismo la testimonianza di un ex schiavo nero, il pubblico crede ciecamente alla sua versione, e anche Eliza è costretta ad ammettere: «era possibile ‘sapere’ che Sir Roger era un impostore eppure allo stesso tempo ‘credere’ a Bogle», al suo occhio quieto al centro del ciclone di assurdità e menzogne di un processo sempre più simile a un circo mediatico.

Chi è veramente Bogle? L’ennesimo truffatore o un bugiardo inconsapevole, ingenuamente convinto dell’autenticità del racconto del pretendente? «L’altra possibilità – che Bogle fosse la mente dietro tutto il piano – [Eliza] la rifiutava senza neanche prenderla in considerazione». Come il capitano Delano a proposito dello schiavo Babo in Benito Cereno di Melville, la donna ritiene che «un anziano nero così mansueto, taciturno, semplice e onesto non avrebbe mai potuto architettare un complotto tanto elaborato». Decide così di avvicinare il giamaicano per conoscere il suo passato. La storia di Bogle costituisce il cuore dell’Impostore: già frammentata in capitoli brevissimi e frequenti analessi, la narrazione si sposta ora in Giamaica, nella piantagione Hope, proprietà del Duca di Buckingham, dove Bogle è nato e cresciuto e dove le sue vicende si intrecciano con le lotte per l’abolizione della schiavitù, dalla sanguinosa rivolta di Natale del 1831 fino all’Emancipation Act del 1838, che mette formalmente fine allo sfruttamento della popolazione di colore. È a questo punto che Eliza, appassionata lettrice e romanziera in erba, scopre che la Giamaica è ben diversa dal mondo esotico e stereotipico raffigurato nei romanzi di Ainsworth: «Ora le sembrava anzi che le due isole fossero, in realtà, due facce dello stesso problema, profondamente collegate». E forse è proprio l’Inghilterra – riflette – a essere nient’altro se non «un alibi molto elevato».

Zadie Smith sembra dunque ribadire il valore euristico del romanzo storico, laddove ci trasporti oltre la Londra macchiettistica dei romanzi di Dickens, popolata di tipi umani singolari dagli improbabili slanci crudeli o affettivi. Mentre scopre la Giamaica dimenticata delle sommosse degli schiavi, la scrittrice dissotterra dai verbali del processo il «genio narrativo di Andrew Bogle», ma lascia che le sue vere motivazioni restino fino all’ultimo elusive.

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