Yves Michaud, vaporizzazione estetica degli idioti sensibili
Denaro, morale, divertimento Ne «L’arte è davvero finita» (Mimesis), il filosofo francese Yves Michaud ragiona sull’«iper-estetica» che annulla l’esperienza in favore di «atmosfere» dove tutto è bello, desiderabile, corretto
Denaro, morale, divertimento Ne «L’arte è davvero finita» (Mimesis), il filosofo francese Yves Michaud ragiona sull’«iper-estetica» che annulla l’esperienza in favore di «atmosfere» dove tutto è bello, desiderabile, corretto
Poche settimane fa un visitatore del Museo Guggenheim di New York si è sfilato una scarpa da ginnastica e l’ha lasciata nell’area espositiva, con il risultato che altri visitatori hanno sentito l’impulso immediato di fotografarla, quasi fosse un’opera. Emulazione goliardica di celebri irriverenti, il gesto nella sua banalità rilancia il sospetto che l’arte oggi sia solo una montatura, un ambiguo affare di etichette, una speculazione su un’idea ormai estinta.
E all’affollato «corteo funebre che accompagna la bara dell’arte, la cui morte non cessa di essere annunciata da almeno un secolo e mezzo, spesso con toni accorati e apocalittici», ha voluto accodarsi anche Yves Michaud (1944) con il suo L’arte è davvero finita Saggi sull’iper-estetica e le atmosfere, apparso in Francia nel 2021 e ora edito in italiano grazie alle cure di Giulia Cervato (Mimesis, pp. 328, € 28,00).
Già professore di filosofia nelle università di Montpellier III, Berkeley, Edimburgo e Parigi I, direttore dell’École nationale supérieure des beaux-arts, Michaud è autore di vari saggi che incrociano analisi filosofica, critica artistica e sociologia, tra cui spicca L’arte allo stato gassoso. Saggio sul trionfo dell’estetica (2003). In quel testo Michaud proponeva un duplice cambio di paradigma, sostenendo che l’arte fosse ormai caratterizzata da un processo di «vaporizzazione» in cui l’opera non è più un oggetto da contemplare, ma un’esperienza sensibile in cui immergersi come dentro ai «vapori di un bagno turco, dove non c’è bisogno di concentrarsi o seguire un programma». Parallelamente, nella sua tesi, il mondo è stato risucchiato in un vortice di «estetizzazione» della realtà, per cui ogni cosa deve apparire bella e desiderabile.
In L’arte è davvero finita Michaud torna sull’argomento per ampliarne alcuni concetti e segnalare come quei fenomeni abbiano raggiunto livelli estremi e irreversibili: lo smarrimento di referenti oggettivi ha privato definitivamente l’arte di consistenza, mentre la conversione estetica del mondo, facilitata dal progresso tecnologico, ha fagocitato ogni aspetto, non importa quanto insignificante, dell’esistenza.
In mancanza di criteri estetici stabili e condivisi, ossia in un ordine di giudizio che l’autore definisce «pluralismo indifferentista» dove tutto può essere arte se inquadrato nel giusto contesto, gli unici tre valori attualmente vigenti sono il denaro, il divertimento e la morale.
Il valore finanziario (da cui il parametro «quanto vale») è ovviamente lo standard supremo; l’arte fa guadagnare ed è sempre utile a far fruttare il capitale in eccesso, compreso quello da riciclare. L’arte trasmette glamour all’azienda e in cambio l’azienda irrora l’arte con il denaro e il prestigio del proprio marchio. L’arte attira pubblico («quanta gente chiama») partecipando attivamente a un mondo di eventi in cui accadono di continuo cose emozionanti e l’intrattenimento prodotto dagli eventi artistici, «Artentainment», si risolve in cifre, genera notorietà, trasforma l’immagine di città o interi paesi, accelera il turismo. Infine l’arte risponde a un valore morale («in che misura è edificante») in virtù del quale deve dare prova di virtù e impegno, preferibilmente nella causa degli orientamenti sessuali, della redenzione post-coloniale, o dell’ecologia. «Da una ventina d’anni questo moralismo moralizzatore occupa quasi tutto il terreno delle esposizioni, delle biennali, degli incontri a tema, dei festival, dei progetti di ricerca e delle residenze esotiche».
In un certo senso, l’autore contribuisce con talento a una tradizione consolidata: il filosofo si cala nei panni del profeta e denuncia la crisi dei valori e il trionfo delle apparenze. Però Michaud non vuole sembrare un nostalgico, né cadere in «indignazioni desuete», così puntualizza che l’estetizzazione ha una sua ragione, quale espediente che l’uomo usa per procurarsi piacere e scansare il dolore, e soprattutto per superare l’imprevedibilità degli accadimenti tanto quanto la paura della propria finitezza.
Certo, quando tutto diventa questione estetica e quando sensazione e piacere sono condizione di possibilità dell’esperienza, è evidentemente occorsa una variazione di scala, si è passati dall’estetica all’iper-estetica. L’imposizione onnicomprensiva della bellezza investe corpi e volti (cosmesi e chirurgia plastica, fitness e body building, diete), spazi e oggetti (design), luoghi e comportamenti (turismo), e perfino sentimenti – è bello essere buoni.
È mutato il rapporto degli individui con la realtà e adesso tutto viene visto attraverso i filtri gratificanti dell’estetica. D’altra parte, le produzioni artistiche funzionano proprio come gli ambienti in cui ognuno si trova comunemente immerso, perché il mondo iper-estetizzato non è altro che una successione di esperienze vissute in ambienti con determinate «atmosfere» che condizionano e garantiscono l’identità dell’individuo – un «idiota sensibile» non più padrone di se stesso.
«Il condizionamento e l’aria condizionata sono il modello dell’esperienza di un mondo reso prima vivibile, poi piacevole, e poi sempre più piacevole». Queste esperienze stanno al centro del consumo, al centro dell’economia dell’immateriale, del tempo libero, del turismo, della vita politica e delle interazioni sociali. «A volte sono ancora naturali, ma più spesso sono fabbricate, controllate e pilotate tecnicamente».
La trasformazione dell’esperienza estetica, divenuta percezione dell’atmosfera, e il suo ingresso nel mondo della vita ha prodotto quindi conseguenze sullo statuto stesso del soggetto. Pertanto l’individualismo odierno sarebbe, secondo Michaud, un falso problema, perché ciò che emerge è piuttosto il «carattere gregario di comportamenti ultraconformisti»; i «Narcisi contemporanei sono tutti unici e fanno tutti la stessa cosa», i gusti si sviluppano e si confermano per mimetismo. È l’epoca dell’edonismo a intensità controllate, che vuole tutto subito, senza fatica, senza impegno, in modo rassicurante e protetto. Soddisfatti o rimborsati.
Dunque è inutile lagnarsi, perché l’arte è finita. «Definitivamente F-I-N-I-T-A». Ciò che ne rimane è in quelle che Michaud chiama, non senza ironia, Zone Estetiche Protette (ZEP) – musei, gallerie, case d’asta, fondazioni, dipartimenti universitari –, anche se in effetti ciò che sta al loro interno è indistinguibile dal tutto iper-estetizzato che le circonda. «L’arte è il letto di Tracy Emin, che vale giusto un po’ di più di un letto Ikea (…), che ha fatto parlare e ci insegna che non è bene scopare bevendo troppo, fumando troppo e senza cambiare le lenzuola»; e che assomiglia davvero troppo alla scarpa che uno spettatore ha abbandonato per gioco in un museo.
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