Avere vent’anni a Zhili, tra i corridoi sporchi dei dormitori e un cielo sempre grigio da cui il sole sembra scappato via. È in questa grande città tessile, a centocinquanta chilometri da Shangai, che arrivano ragazze e ragazzi da moltissime zone rurali lungo il fiume Yangtze per lavorare nelle piccole imprese che fabbricano vestiti per bambini, destinati per lo più al mercato nazionale, e in diversi casi esportati anche all’estero.

LA STRUTTURA di queste imprese è quasi sempre famigliare, c’è un padrone e ci sono gli operai, nulla di moderno o di meccanizzato, i contratti vengono discussi coi padroni – forieri di un paternalismo dispotico ottocentesco – e pagati in liquido, non ci sono banche né riferimenti allo Stato. La paga è bassissima, qualcosa come 1,50 yen a pezzo – cioè dieci centesimi di euro – quando va bene e dopo molte accese trattative che il film restituisce, gli operai a un certo punto si ribellano e chiedono un aumento, coi padroni che replicano: se non ti va bene puoi tornare a casa. Guadagna chi è più veloce, maggiore è il numero dei pezzi fabbricati, maggiore è il salario.

Wang Bing
Mi sono sempre sentito libero di fare quello che volevo ma oggi questa libertà entra in contraddizione con l’ambiente intorno Eccoli dunque, uomini e donne, incollati quasi come dei cyborg alle macchine da cucire, piegarsi col corpo che sussulta a ogni «pezzo», maniche, gambe di tutine sintetiche colorate, tasche da tagliare e unire e appiccicare: quindici ore al giorno e spesso straordinari non pagati, un ritmo che anche il fordismo più spietato non poteva immaginare. Guai a fermarsi, a distrarsi, a sospendere un attimo: si perdono soldi, l’unico motivo per cui si è lì.

EPPURE, nonostante gli spazi in cui si ammassano con poca igiene e molta sporcizia, il bagno comune senza acqua calda che pure lì si deve fare presto per lasciare il posto agli altri, il cibo spesso mangiato sui letti e preconfezionato, questi giovani operai e operaie – la cui età oscilla dai vent’anni, e anche meno, alla trentina – non si fanno stritolare dalla macchina di un capitalismo di cui, in qualche modo, vogliono essere parte. Tra loro circola un’allegria spensierata, giochi, risate, confidenze, seduzioni, amori. Si rincorrono in quei lunghi corridoi quando è finito il lavoro, si tirano la panna, si vestono con cura per uscire, attaccati sempre ai loro smartphone si corteggiano prendendosi in giro, come accade ovunque alla loro età. Wang Bing gli ha dedicato questo suo nuovo film, Jeunesse (Le Printemps) – titolo internazione Youth (Spring) – la prima scossa tellurica al concorso, che segna anche il ritorno del documentario in gara; li ha filmati per cinque anni, dal 2014 al 2019 seguendoli nel quotidiano di corteggiamenti e di baci, di problemi con le famiglie – la ragazza che all’inizio abortisce perché non possono sposarsi e la famiglia non vuole un ragazzo di classe sociale inferiore – di liti, momenti di sconforto, stanchezza, e anche di lotte perché il loro lavoro sia pagato in modo più equo, specie quando i pezzi da realizzare sono particolarmente difficili; di tensioni coi padroni quando non vogliono pagare.

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Negli occhi di Wang BingOGNI TANTO qualcuno guarda diritto in «faccia» quella macchina da presa a cui ha dato accesso a momenti anche privati dell’esistenza – seppure mantenendo la scelta di porte chiuse per le conversazioni intime, come quella tra una coppia sul loro futuro, se sposarsi o meno, sono ombre riprese dietro dei teli stesi a asciugare. Certo Wang Bing non cela la presenza della macchina, questa relazione è la cifra dei suoi film – alla fine tutti coloro che appaiono vengono ringraziati – che non cerca di imporre un punto di vista a senso unico, ma nel restituire un universo e chi lo abita, i gesti che lo attraversano, i sentimenti che vi si mescolano produce uno sguardo aperto, che ci interroga sul nostro mondo e sulle sue fratture.

 

C’è una empatia, una prossimità che forse nasce anche dalla sua esperienza di giovane lavoratore quando a quattordici anni ha perso il padre. Ma soprattutto Wang Bing, che dal 2021 vive a Parigi – «Mi sono sempre sentito libero di fare quello che volevo ma oggi questa libertà entra in contraddizione con l’ambiente che mi sta intorno» ha detto al quotidiano «Libération» – nel suo lavoro di curiosa e appassionata osservazione tra aghi, rotoli di filo che talvolta volano in aria, sa dare ai suoi personaggi la libertà di essere sé stessi, senza ridurli a un dogma o alla dimostrazione di un discorso ideologico. È quello del regista cinese, uno dei grandi autori contemporanei, un cinema «poetico e politico» che sa mettere in scena la realtà attraverso i frammenti dei destini che ne fanno parte. A differenza di altri suoi film nei quali ha continuato a documentare le trasformazioni e i conflitti della Cina attuale – pensiamo a West of the Tracks o a Bitter Money, anch’esso sui migranti cinesi che arrivano per lavorare nel tessile – qui pur scontrandosi con la durezza di quel vissuto i giovani mantengono intatta la gioia, l’entusiasmo, il gusto di vivere. In fondo questo per loro è solo un passaggio che li porta verso altro, che gli permette di accumulare un po’ di denaro con cui costruire il futuro, e forse a loro volta divenire imprenditori, avere qualche lusso in più. E questa loro spensieratezza è quasi una ribellione, che gli permette resistere a quelle macchine sulla paradossale «Via della felicità» – sede di uno dei laboratori.
Wang Bing rimane per l’intero film – fluviale come d’abitudine, oltre tre ore di cui però non si avverte alcuna fatica, grazie anche alla compattezza del montaggio di Dominique Auvray – tra i dormitori e i luoghi di lavoro, uscendo un po’ nei dintorni, con la sola «fuga» nel finale verso la casa di due dei protagonisti. Riprende senza orizzonte, che è già una dichiarazione di punto di vista, come se in fondo ciò che c’è lì fuori sia poco interessante.
Il «teatro» di quei vissuti è lì dentro, è tra le macchine che avviene tutto, laddove si afferma la potenza esplosiva di un’età che ancora crede tutto possibile da cui il regista si lascia catturare, senza per questo mettere da parte il suo pensiero critico. Ma quella libertà che cerca è la stessa che circola tra le sue immagini, a noi spettatori il compito di scoprire ogni volta qualcosa. Che oggi, in tempi di codici e di soggetti «prefabbricati» è un gesto molto prezioso.