È sempre affascinante quando il cinema riflette su se stesso e ancor di più quando a farlo è un doc su Wang Bing. Night and Fog in Zona è un documentario, o meglio, come lo definisce il suo autore (il critico sud coreano ora diventato regista Jeong Sung-il) un cine-essay che segue il famoso regista cinese per un inverno durante la lavorazione di due suoi progetti: Til Madness Do Us Part ed il sequel del suo Three Sisters. L’«avvento» di Wang Bing è stato, e continua ad essere, uno degli eventi più significativi accaduti nel mondo del cinema negli ultimi quindici anni: non solo ha contribuito ad affermare il valore estetico del digitale, ma ha anche portato con i suoi documentari uno sguardo aurorale e liberatorio sul mondo.

Interessante è che Jeong Sung-il abbia avuto una simile esperienza aurorale quando vide Tie Xi Qu – West of the Tracks nel 2001: «Quando ero al Rotterdam Film Festival ricordo che comprai un biglietto per un film di 9 ore e 10 minuti, fui sorpreso dalla sua durata ma ci andai comunque. Si apriva con un treno, e mi ricordò il primo film mai girato, quello dei fratelli Lumiere del 1895. Con i lavori di Wang Bing ebbi l’impressione di trovarmi davanti al cinema del ventunesimo secolo come gli spettatori del 1895 si trovarono ad assistere alla nascita della Settima Arte».

Non c’è narrazione o voce narrante in Night and Fog in Zona, tutto ciò che viene spiegato, non molto a dire la verità, è detto attraverso gli intertitoli: coordinate geografiche, dove si sta dirigendo Wang Bing, quali sono i suoi progetti. Gli intertitoli talvolta funzionano anche come brevissimo commento poetico alla scena successiva. L’unico momento in cui Wang Bing parla direttamente alla videocamera in una sorta di intervista si trova all’inizio, una parte che serve da breve introduzione al suo mondo ed al suo modo di filmare. Solo pochi minuti in cui parla, fra le altre cose, del modo in cui gira, della verità nel cinema, dell’impossibilità di esprimere la totalità, dei suoi progetti, della Cina, dei suoi contadini e della sua storia, del background culturale simile fra la sua generazione e quello di Andrei Tarkovsky.

Nelle sue quasi 4 ore, 235 minuti che però passano in un lampo, Night and Fog in Zona racchiude in se molto dell’approccio alla Settima Arte di Wang Bing. Veniamo poco a poco a conoscenza della sua abitudine di fare foto a coloro che appaiono nei suoi lavori, delle sue conversazioni con queste persone e della sua «tecnica d’intervista» in cui il passaggio fra «chiacchierare con» e «filmare» è praticamente inesistente, quasi ci fosse una continuità fra le due azioni. È inoltre interessante vedere come «Wang cerchi il punto strategico, la singola posizione da dove tutta l’azione della scena possa essere filmata» (Thom Andersen, Cinema Scope), un fattore fondamentale nel suo fare cinema perché la relazione fra la videocamera, le persone e le cose che la circondano determina il senso dello spazio nel film e come esso è rappresentato nelle sue opere. E lo spazio, assieme al tempo/durata, è uno degli elementi cruciali del suo cinema.

Un’altra cosa che colpisce guardando questo lavoro è quanto Wang Bing sia un regista per niente distaccato nei confronti dei soggetti che filma: spesso quando la videocamera è spenta lo vediamo dare aiuto e suggerimenti pratici alle stesse persone che sta riprendendo, quasi a guisa di un avvocato.
Particolarmente affascinante da un punto di vista strettamente cinematografico è una scena in cui il regista ed i suoi due collaboratori hanno un meeting serale, dove discutono del materiale girato in giornata nel manicomio, che sarebbe poi diventato ‘Til Madness Do Us Part. Pochi minuti ma densi di significato in cui Wang Bing spiega la ragione dietro all’uso di lunghi piani sequenza, il perché evitare il teleobiettivo e altre regole da seguire durante le riprese affinché il lavoro finale possa avere una certa costanza di stile.

Ma la qualità migliore di Night and Fog in Zona è che non si tratta solamente di un documentario su Wang Bing che gira le sue opere, ma è, con le dovute differenze, girato e concepito come uno dei suoi lavori. Stilisticamente li riflette: piani sequenza, assenza di narrazione, paesaggi astratti e musica sperimentale, il tutto per esplorare il cinema del regista ed in senso più ampio la Cina contemporanea, un paese visto, come del resto in Wang Bing, da un punto di vista periferico e rurale.

Uno dei migliori esempi di questo riflettersi si trova verso l’inizio del documentario, quando Wang Bing e i suoi collaboratori si trasferiscono nella regione dello Yunnan. Una lunga sequenza filmata dalla macchina in cui si trova il gruppo, in cui vediamo strade, montagne, pianure, luci e tunnel quasi fondersi assieme, che viene protratta per quasi 10 minuti con in sottofondo una musica minimalista che interagisce con il paesaggio astratto catturato e creato dalla videocamera.

Questo tipo di scene si ripetono nel corso del film un paio di volte: un’altra degna di nota si svolge all’interno del manicomio. Wang Bing sta dormendo e una decina di pazienti si siedono e girano accanto a lui, una sequenza che ci viene mostrata interamente in slow motion. A dare a Night and Fog in Zona un tocco ancora più sperimentale e quasi metafilmico sono due momenti posti proprio all’inizio ed alla fine del film in cui vediamo una ragazza coreana vestita di rosso seduta in un teatro mentre fa una telefonata.

Gli unici problemi che si incontrano durante la visione di questo lavoro, altrimenti un’opera pressoché perfetta, sono alcune scelte in fase di montaggio, in qualche caso troppo improvviso, e il tempo degli intertitoli che è davvero troppo veloce per una lettura normale.

Ma è cercare il pelo nell’uovo in un documentario che è una delle migliori opere di non-fiction che siano uscite durante questo 2015, non solo per il suo soggetto, affascinante sotto vari aspetti prima di tutto cinefili, ma anche per la capacità di entrare in risonanza con lo stile di Wang Bing ad un livello estetico più profondo.

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