«Ciao Rania, come stai? Non mi hanno liberato, mi hanno portato in carcere a Roma. Chiama lo zio Anouer e capisci se può nominare un avvocato. Mi vogliono rimpatriare. Io non voglio tornare, dì a papà e a mamma di non preoccuparsi. Ora l’importante è avere un avvocato, non voglio essere lasciato solo».

LE PAROLE SONO di Wissem Ben Abdellatif, il 26enne tunisino morto all’ospedale San Camillo di Roma il 28 novembre 2021 in circostanze ancora da chiarire. Un anno dopo rimangono ancora troppi interrogativi e poche certezze, come l’audio di un ragazzo inviato alla sorella Rania dal Centro per il rimpatrio di Ponte Galeria, poco prima di essere ricoverato nel reparto psichiatrico del San Camillo e passare cinque giorni legato a letto in stato di contenzione. Parole piene di angoscia per una situazione di cui non sapeva niente e che da lì a poco avrebbe assunto tinte sempre più oscure.
A Kebili, nel profondo sud della Tunisia, la famiglia aspetta notizie su Wissem, un’attesa snervante per una storia che ha molto da rivelare. Kebili non è Tunisi, dove le notizie dall’altra parte del Mediterraneo arrivano già sfumate. È ancora più isolata in una regione che si potrebbe definire svantaggiata con pochissime opportunità per i suoi giovani, lontana sette ore di macchina dalla capitale e dimenticata anche dalle autorità centrali che dovrebbero esporsi per ottenere la verità su un concittadino morto sotto la custodia di un altro Stato.

La famiglia, che ha scoperto ciò che è successo a Wissem cinque giorni dopo la sua morte, non si arrende: «È veramente triste – racconta a il manifesto Kamel Ben Abdellatif, il padre – Un essere umano non può essere trattato in questo modo. È stato legato mani e piedi, una scena straziante per noi. Non posso pensare che ci sia un paese nel mondo dove succedono queste cose. Non lo immagino».

ARRIVATO a Lampedusa a inizio ottobre del 2021, dopo avere passato un periodo su una nave quarantena ad Augusta, Wissem Ben Abdellatif è stato portato al Cpr di Ponte Galeria. Qui, dopo due visite psichiatriche e una diagnosi di disturbo schizoaffettivo, è stato trasferito prima all’ospedale Grassi di Ostia e successivamente al San Camillo. Rimasto in stato di contenzione per cinque giorni consecutivi e alimentato una volta sola, la causa della morte è legata a un arresto cardiaco.

A squarciare una storia già di per sé drammatica è il luogo del decesso, il corridoio del reparto psichiatrico; i valori delle analisi del sangue, completamente fuori valore; la decisione del giudice di pace di Siracusa il quale, mentre Wissem si trovava in stato di contenzione, aveva di fatto sospeso il trattenimento presso il Cpr.

Un anno dopo è tempo di indagini e (quasi) di processi, come racconta Yasmine Accardo della rete LasciateCIEntrare, impegnata nella giornata di domenica in un presidio di fronte al San Camillo: «L’aspetto principale è medico, i pubblici ministeri si sono concentrati su quello. Ci sono quattro indagati di ambito medico ma non sappiamo i nomi e ci sono questioni legate a un eccesso di somministrazione di farmaci e un falso in atto pubblico. Al momento l’importante è che non si sia archiviato il caso».

ASSISTITI dall’avvocato Francesco Romeo, un anno dopo è anche il momento in cui la famiglia si trova con pochi alleati. Uno sicuramente non è il tempo: le sorelle Rania e Maram, il padre Kamel e la madre Henda non hanno mai smesso di porre domande e di chiedere la verità su Wissem. Tuttavia l’attesa è sfibrante e logora non solo la mente ma anche il corpo.

Kamel Ben Abdellatif, autista per conto del municipio di Kebili, porta un evidente tremolio alle mani. A Henda Ben Ali, operaia in un’industria di datteri, è stato consigliato di smettere di lavorare. La sorella maggiore, Rania, continua a studiare Scienze dello sport all’università del Kef ma non smette di pensare a suo fratello e ora è anche militante nell’associazione delle madri dei migranti scomparsi.

La storia di Wissem Ben Abdellatif non è particolarmente diversa rispetto agli oltre 15mila tunisini arrivati in Italia nel solo 2021. Partito per dare un nuovo orizzonte di vita a lui e alla famiglia, aveva intenzione di raggiungere uno zio in Francia e lavorare in pizzeria. Appassionato di sport, in Tunisia non ha trovato niente, solo lavori sotto pagati sia a Kebili che a Tunisi quando ha provato a costruirsi un’alternativa nella capitale.

QUELLO CHE È DIVERSO è solo un dettaglio: la morte all’ospedale San Camillo. «Dov’è l’umanità? Dove sono le leggi? Non hanno sentimenti? Dove sono le autorità italiane? Devono sentire questo dolore. Anche se mio figlio è morto bisogna sapere la verità e devono essere garantiti i suoi diritti. Se la Tunisia non glieli ha dati, lo deve fare lo Stato italiano», sono le domande (ancora) senza risposta della mamma Henda Ben Ali.