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William Faulkner, dove i muli sono esempi per gentiluomini

William Faulkner, dove i muli sono esempi per gentiluominiDavid Hunter Strother, «Mill boys racing», 1850 ca.

Classici contemporanei In un lingua ancora sostanzialmente modulata sulla oralità, ma a bassa densità semantica, l’ultimo romanzo è una sorta di addio a Yoknapatawpha e un riepilogo di temi: «I saccheggiatori», da La nave di Teseo

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 8 ottobre 2023

Ogni volta che a William Faulkner chiedevano di indicare i suoi libri preferiti, insieme alla Bibbia, a Moby-Dick e alle opere di Shakespeare menzionava Don Chisciotte. In un’intervista rilasciata il 20 aprile del 1962, all’indomani della pubblicazione del suo ultimo romanzo, I saccheggiatori, e a circa due mesi dall’infarto che gli sarebbe stato fatale, l’autore spiegò infine il motivo di tanta ammirazione. L’hidalgo di Cervantes gli ispirava «pietà e divertimento» nella sua mescolanza di tragico e comico: «È un uomo che cerca di fare del proprio meglio nell’universo sgangherato in cui è costretto a vivere.

I suoi ideali non hanno senso per i nostri standard farisaici, ma secondo i miei standard sono tutt’altro che insensati». Faulkner aggiunse poi una chiosa interessante: «Leggendo ogni tanto una o due pagine di Don Chisciotte rivedo me stesso». È infatti un narratore del tutto autobiografico quello che racconta la storia de I saccheggiatori, romanzo donchisciottesco quant’altri mai, ristampato da La Nave di Teseo in una nuova traduzione di Carlo Prosperi (pp. 384, € 20,00). Il titolo originale, The Reivers, adopera un termine desueto in scozzese arcaico – equivalente all’inglese «reavers» – che all’ultimo momento Faulkner decise di sostituire al titolo che aveva pensato in origine («The Stealers», i ladri) perché «suona più attivo, sciabordante», mentre l’equivalente inglese «sembra troppo pacifico, bucolico». Sin dal titolo, quindi, il romanzo rievoca un passato quasi mitico e anacronistico, un’atmosfera fiabesca accentuata dal sottotitolo, purtroppo sparito nell’edizione italiana: A Reminiscence, un ricordo.

«Disse il nonno:» – così si apre il romanzo, e da qui parte il lungo racconto che Lucius Priest, patriarca di un ramo cadetto della famiglia McCaslin, ben nota ai lettori di Faulkner, rivolge al suo nipotino. Al tempo stesso narratore e protagonista, Lucius rievoca un viaggio del 1905, quando aveva undici anni: da Jefferson a Memphis, poi a Parsham e ritorno, in compagnia dello scaltro stalliere nero Ned e del sempliciotto Boon, nipote di un’indiana chickasaw e di un trafficante di whisky, a bordo di un’autovettura «presa in prestito» dal nonno di Lucius.

A questo trio strampalato – che per certi versi complica e rafforza le dinamiche classiche di coppie picaresche come don Chisciotte e Sancho Panza o Huck Finn e Jim – si aggiungono via via altri personaggi, dalle prostitute di buon cuore di un bordello di Memphis al vicesceriffo violento e meschino di Parsham, da un ferroviere amichevole a un giovanissimo guardone, finché la situazione, già piuttosto ingarbugliata, sembra degenerare: la preziosa macchina del nonno viene scambiata con un cavallo rubato, il cavallo deve vincere una corsa clandestina, metà dei personaggi finisce in galera e il ragazzino, Lucius, è chiamato a compiere delle scelte che lo aiuteranno a maturare. Oltre che in chiave picaresca, il romanzo si può e si deve leggere come un Bildungsroman in cui il giovane Lucius arriva a capire cosa significa davvero comportarsi da «gentiluomo».

Questa idea del «gentiluomo» è alla base non solo della poetica faulkneriana, ma di gran parte della letteratura del Sud degli Stati Uniti, dove vige una sorta di codice cavalleresco che pone l’«onore» – o quantomeno una sua versione ampiamente distorta – al centro di ogni rapporto famigliare e sociale. Lucius è tormentato dalle bugie che è costretto a dire per proteggere se stesso e gli altri, ma mantiene sempre saldo il proprio codice morale: Chisciotte in erba, affronta disarmato un ragazzino più grande dotato di coltello, per proteggere una prostituta, così come non esita a scagliarsi contro il ben più grande Boon al grido di «Dagliene ancora. Ha picchiato una donna».

Lo Zio Parsham, l’anziano e dignitoso afroamericano che funge da genius loci del paese, opta per un approccio più indiretto, paragonando il comportamento dei gentiluomini del sud a quello dei muli: «Il mulo può avere due idee contemporaneamente, e per cambiargliene una ti devi comportare come se fossi convinto che sia venuto in mente prima a lui, di cambiarla. Lui capirà che non è così, perché i muli sono intelligenti. Ma il mulo è anche un gentiluomo, e se sei cortese e rispettoso con lui senza cercare di corromperlo o spaventarlo, lui a sua volta sarà cortese e rispettoso con te – a patto di non invadere i suoi spazi».

Se Lucius è l’eroe della storia, Zio Parsham ne è il nucleo morale, insieme al nonno del ragazzino, soprannominato «Boss» (così come il nonno di Faulkner in famiglia era chiamato «Chief»).

A ben guardare, I saccheggiatori costituisce una sorta di commiato nostalgico dell’autore alla contea di Yoknapatawpha e ai suoi abitanti, i vari McCaslin, Compson, Sartoris e LeSpain protagonisti di tanti suoi romanzi, ma è anche una rivisitazione in chiave contemporanea dei temi che innervano l’intero corpus faulkneriano. Ad esempio, il processo di maturazione di Lucius nella grande città ribalta l’iniziazione del giovane Ike McCaslin nella wilderness di Go Down, Moses: lì il superamento della prova – il confronto col vecchio orso Ben – porta Ike a rifiutare la propria eredità, ripudiando il possesso della terra rubata ai nativi e macchiata di sangue dai propri avi.

Lucius invece farà tesoro dell’insegnamento del nonno, secondo cui «un gentiluomo accetta la responsabilità delle proprie azioni e sopporta il peso delle loro conseguenze, anche quando non è stato lui a provocarle». I tempi sono cambiati, riflette il narratore, e continueranno inevitabilmente a cambiare: «Per il 1980 l’automobile sarà tanto obsoleta per raggiungere il selvaggio [la wilderness] quanto l’automobile stessa avrà reso obsoleto il selvaggio che vorrebbe raggiungere». Il continuo sovrapporsi del punto di vista di Lucius anziano con la versione bambina di se stesso è uno degli aspetti più riusciti del romanzo, in grado di innescare nel lettore uno straniante cortocircuito temporale.

Nonostante l’impronta fortemente orale della scrittura, I saccheggiatori resta lontano tanto dalla densità linguistica di Absalom, Absalom! quanto dalla complessità strutturale di L’urlo e il furore: le digressioni del vecchio Lucius e i suoi commenti alla narrazione accompagnano il lettore senza eccessivi sobbalzi o particolari ambiguità lessicali, attraverso una prosa limpida che mescola il registro nostalgico e quello comico senza mai sfociare nel melodrammatico e tantomeno nel burlesco.

La traduzione restituisce di buon grado la vischiosità del periodare ipotattico, anche se la scelta di rendere il dialetto dei neri in un bizzarro italiano sgrammaticato, ottenuto modificando gli ausiliari e omettendo le vocali iniziali di alcune parole – «Non ho stato io. Ha stato Lycurgus. Quella prima mattina, mentre che tornavo a prenderti a l’hotel. No gli ha stato difficile. I cani già lo ‘vevano spinto su l’albero una volta» – risulta troppo spesso forzata, vanificando l’effetto di naturalezza dei dialoghi originali.

Del resto, la prosa idiosincratica di Faulkner segue una cadenza, un ritmo e un tempo impossibili da riprodurre in una lingua diversa dall’inglese, costituendo quello che Emilio Cecchi definì un «accento di epica lontananza, come di trombe nel buio della notte». Anche solo per questo motivo, ogni sforzo di traduzione andrebbe comunque elogiato come un’impresa – idealistica e donchisciottesca, sì, ma pur sempre necessaria.

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