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Un suicidio ogni cinque giorni, quando carcere vuol dire disperazione

Un suicidio ogni cinque giorni, quando carcere vuol dire disperazioneIn cella. – LaPresse

Margini Il numero di detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno sale drammaticamente a 48, soprattutto giovani. Mai così tanti

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 11 agosto 2022

«A 24 ore dalla circolare per la “prevenzione delle condotte suicidiarie delle persone detenute”, emanata dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) lo scorso 8 agosto, si sono consumati altri due suicidi di ristretti, a distanza di poche ore l’uno dall’altro, rispettivamente, a Napoli Poggioreale e a Napoli Secondigliano. Il numero, altissimo, di coloro che hanno deciso di farla finita fra le sbarre dall’inizio dell’anno sale dunque a 49 (48 in realtà, secondo i dati ufficiali segnalati in procura, ndr). Mai come in questa circostanza l’adagio popolare per il quale mentre il medico studia il malato, in questo caso il detenuto, muore ci sembra azzeccato. E con il detenuto muore anche, un po’ alla volta, la Costituzione repubblicana, attentata da una politica inetta e ipocrita che non sa, non riesce o non vuole trovare una soluzione credibile per sollevare le sorti dell’esecuzione penale e, particolarmente, delle carceri». L’appello accorato è di Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria. L’ultimo detenuto suicida in ordine di tempo è Dardou Gardon, algerino di 33 anni, che si è impiccato nella sua cella di Secondigliano, istituto dove era arrivato un anno fa proveniente da Benevento. Lì aveva provato già due volte a togliersi la vita.
TANTI, TROPPI, prima di lui. Quando la mattina del 4 agosto Donatela Hodo è stata ritrovata morta nella sua cella della casa circondariale di Montorio (Verona) con a fianco una bomboletta di gas, sulle prime si era pensato ad un incidente, uno dei tanti che avvengono nelle carceri quando la disperazione prende il sopravvento e il bisogno di «sballarsi» si trasforma in tragedia. Se non avessero trovato il bigliettino che Donatela, albanese di 26 anni, fragile e tossicodipendente, un passato di furti e piccole rapine, un futuro molto prossimo – appena qualche settimana – in una comunità per disintossicarsi, ha lasciato al suo amore, la sua morte non sarebbe neppure stata calcolata tra i suicidi. «Leo, amore mio, sei la cosa più bella che mi poteva accadere» ma «ho paura di tutto, di perderti, e non lo sopporterei», ha scritto prima di morire con una calligrafia chiara su un fogliettino di carta.
FRANCESCO IOVINE invece aveva 43 anni e un corpo che era arrivato a pesare un chilo per ogni anno di vita vissuta. Anoressico, con problemi psicologici gravi, detenuto per piccoli reati (fine pena 2024), si è suicidato nel reparto sanitario di Poggioreale. «Domenica pomeriggio (7 agosto, ndr), mentre soccorrevano Francesco, dal carcere hanno chiamato il 118: l’autoambulanza è arrivata dopo 40 minuti», racconta il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello. Quel giorno «a Poggioreale per più di 2000 persone era presente un solo psichiatra».
A giugno Giacomo Trimarco, 21 anni, dopo due tentativi è riuscito a suicidarsi nel carcere milanese di San Vittore. Avrebbe dovuto essere curato, era in attesa di trasferimento in una Rems (le strutture sanitarie psichiatriche per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Pochi giorni prima nello stesso istituto era stata la volta di Abou El Maati, un giovane di 24 anni, cittadino italiano di famiglia egiziana.

SONO SOLO ALCUNI dei 48 (o 49, dipende da come viene conteggiata la morte di Desiad Ahmeti, 28 anni, nel carcere di Salerno: il primo dell’anno in corso, o l’ultimo del 2021) detenuti morti suicida in 222 giorni: più di uno ogni cinque giorni, la maggior parte stranieri, tre le donne. «Numeri così alti non si sono mai registrati, neanche negli anni del grande sovraffollamento che portò alla condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’uomo», rileva l’associazione Antigone. In carcere, quest’anno, le persone si sono uccise 16 volte in più rispetto a quanto accade nel mondo libero, l’anno scorso erano 11 volte in più. Rinchiusi nelle celle degli istituti penitenziari italiani a fine luglio, c’erano 54.979 persone su poco più di 50 mila posti disponibili. «Nello stesso periodo dello scorso anno, i suicidi furono 34», riferisce il Garante nazionale Mauro Palma. E ad uccidersi in carcere non sono solo i detenuti: tre agenti penitenziari dall’inizio dell’anno sono morti così. L’ultimo tentativo risale al 4 agosto, ad Augusta, dove un uomo di 52 anni, originario di Noto e residente a Siracusa, si è sparato con l’arma di ordinanza rischiando di lasciare orfani i suoi due figli. La sofferenza dei detenuti si riverbera su tutta la comunità carceraria.
TRA I RECLUSI, «la fascia d’età in cui si sono registrati la maggior parte di questi atti – scrive ancora Antigone – è quella tra i 20 e i 30 anni. Persone giovanissime, quindi, con tutta la vita davanti a loro. Molti tra quelli che si sono suicidati erano poi appena entrati in carcere o prossimi all’uscita. Se si guarda agli istituti dove nel 2022 si sono consumati più suicidi (Roma Regina Coeli, Foggia, Milano San Vittore, Palermo Ucciardone, Monza, Napoli, Genova Marassi e Pavia), i problemi sono sempre gli stessi: cronico sovraffollamento, elevata percentuale di detenuti stranieri, di tossicodipendenti e di detenuti affetti da patologie psichiatriche, ed una carenza di personale specializzato per farsi carico di queste criticità». Secondo Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria, «oltre il 60% dei suicidi in carcere ha come vittime tossicodipendenti o detenuti con problemi psichici». Una «strage di Stato», la chiama Di Giacomo.
IL MINISTERO della Giustizia non ha abbastanza dati (o non li pubblica) riguardo le morti in carcere. Sopperisce a questa mancanza il lavoro prezioso della redazione di Ristretti orizzonti che da 25 anni produce una rivista dalla casa di reclusione di Padova e un data base dettagliato per dare corpo (volti e storie) a quel numero secco e anonimo (senza nomi, date né luoghi) divulgato a fine anno dal Dap come dato dei morti e dei suicidi dietro le sbarre. «Molte di queste tragedie sfuggono al conteggio del ministero – spiegano dalla redazione di Ristretti – quando per esempio il detenuto suicida spira in ospedale, oppure quando, se si usano bombolette del gas, viene derubricato ad incidente».


APPENA QUALCHE GIORNO fa però Carlo Renoldi, capo del Dap da pochi mesi, ha finalmente divulgato una circolare per prevenire i suicidi. «È una circolare minuziosamente attenta a cercare un metodo per intercettare le persone a rischio – commenta Ornella Favero, direttrice di Ristretti orizzonti – Bene, ma bisogna capire perché sta succedendo proprio adesso». Già, perché? «Si era aperta una stagione di grande speranza, dopo la tortura del lockdown da Covid – spiega – È stato un periodo davvero terribile, quello: l’isolamento estremo, la chiusura di tutte le attività interne al carcere, il divieto di vedere i familiari… E poi rivedere i figli dopo mesi e solo dietro a un vetro divisorio. Ci avevano sperato davvero, di poter avere qualche giorno di liberazione anticipata a parziale compenso di ogni giorno passato in quel modo. Ma la politica non è riuscita a fare neppure questo, la delusione è stata forte. E ora, caduto il governo, è rimasta solo la disperazione. In più in questo periodo le carceri sono un’indecenza: ci sono 40 gradi nelle celle ed è impossibile pure tenere i blindati aperti per fare un po’ di corrente. I numeri sono enormi, il personale carente».
C’È SOLO UNA COSA che un po’ scalda il cuore di Ornella Favero: «Trovo eccezionale la lettera del magistrato di sorveglianza di Verona che dopo il suicidio di Donatela si interroga e ammette di non aver fatto abbastanza». La lettera in cui Vincenzo Semeraro, che seguiva Donatela da tanti anni scrive: «So che avrei potuto fare di più per lei, non so cosa, ma so che avrei potuto fare di più! Io le volevo bene davvero. Anche noi magistrati a volte ci leghiamo di più ad alcune persone che ad altre. Non sono riuscito a fare quello che volevo ma mi impegnerò a non sbagliare ancora». «È un esempio – dice sottovoce Favero – che dovrebbero seguire tutte le istituzioni».

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