Volterra in carrozzina, il mio viaggio nell’arte dei detenuti-attori
Carcere Disabilità a confronto: quattro giorni nel carcere pisano a seguire le prove del nuovo spettacolo di Armando Punzo e della Compagnia della Fortezza. La limitazione è ciò che accomuna me e gli interpreti di «Naturae, la valle della permanenza»
«Noi non siamo abituati a persone disabili che si muovono così tanto». Me l’ha detto T. al secondo giorno che ero al carcere di Volterra, per assistere alle prove dello spettacolo «Naturae. La valle della permanenza» che Armando Punzo ha messo in scena con la Compagnia della Fortezza, creata trent’anni fa con attori – detenuti.
È vero, è più facile pensare ai disabili come soggetti che stanno al loro posto, che non si avventurano per le strade del mondo. Certamente non vanno a Volterra, città arroccata su un cucuzzolo, fatta di sali e scendi lastricati di pavé.
Mi sono anche sporto dalle mura della città per avvistare qualche altra carrozzina. Non ne ho viste. Pasquale, uno dei miei compagni di viaggio, mi ha assicurato che un’altra l’ha individuata, e non era la mia. Poco male, di solito anche a Milano i disabili in libertà sono rari.
ERO ALLA FORTEZZA con la mia disabilità, con i miei limiti. Ma erano proprio questi limiti ad accomunarmi ai detenuti. Eravamo simili: io con la mia tetraplegia, loro con i loro anni di carcere da scontare. Ognuno a fare i conti con la propria limitazione. E ogni volta che dovevo superare un ostacolo erano lì, pronti ad aiutarmi, ancora prima che avessi il tempo di chiedere.
Probabilmente questa sorta di destino comune ha contribuito a far sì che i detenuti attori potessero aprirsi. Mi hanno raccontato scampoli delle loro vite, delle loro fantasie, dei loro desideri, dei loro impegni. Del loro proiettarsi verso il mondo esterno, chi legandosi all’associazionismo, chi partecipando al premio Tenco e vedendo le proprie liriche musicate da Petra Magoni o Gianni Maroccolo, chi facendo il factotum nelle Rsa.
Ogni detenuto è un pianeta, un mondo da scoprire, con mogli, figli, relazioni.
Con carrozzina e motoretta mi sono aggirato tra quelle che una volta erano le celle, ora adibite a sartoria, a camerini, a sala studio. Ho intravisto la chiesa e la moschea.
SI RESPIRAVA un’atmosfera frenetica, un andirivieni operoso. C’erano detenuti alle prove costumi, chi ripassava la parte, chi ascoltava assorto le indicazioni di Armando Punzo e di Alice Toccacieli, l’aiuto regista. Se chiedevo, la risposta di ogni recluso era sempre la stessa. «Sono qui per capire, per crescere, e il teatro mi aiuta».
Per quattro giorni sono stato in una bolla fatta di colori, di musiche, in un sogno che si sviluppava sulla scena, un lungo cortile rettangolare ricoperto di un bianco abbacinante che rimbombava sotto il sole brillante di Volterra.
C’era caldo ma non ho mai sentito un lamento. Gli attori detenuti, ricoperti di colori, a volte con vestiti pesanti non si sono sottratti una volta alle prove estenuanti che si sono ripetute per giorni. In loro c’era l’orgoglio di partecipare a una scommessa artistica.
Certo, Alice, quando chiamava la mezz’ora, doveva imporsi come accade in tutti i teatri del mondo. Mezz’ora prima dell’inizio grazie al suo richiamo quel miscuglio di storie, di passioni, di individualità, si trasformava in un insieme pronto a dare il meglio di sé per poter riscuotere la paga a cui aspira ogni attore: l’applauso del pubblico.
Alla Fortezza di Volterra non ho sentito una volta parlare di rieducazione, di trattamento. Ho sentito parlare solo e soltanto d’arte, ho vissuto in mezzo all’arte.
Sono stato tra le mura del carcere di Volterra quattro giorni. Ogni giorno, alle prove, mi è sembrato di vedere uno spettacolo diverso. Ogni giorno veniva aggiunto o tolto qualcosa, modificati i costumi, cambiato il finale, alla ricerca della perfezione, o semplicemente alla ricerca del gioco scenico.
DA VERI professionisti, i detenuti attori accoglievano cambiamenti e proposte mettendosi in gioco ogni volta. La voce narrante dello spettacolo prestata da uno dei detenuti era calda e avvolgente, senza una sbavatura. L’attore che interpretava l’infinito si muoveva su palco con vero talento. Era un tripudio di colori, una fantasmagoria di segni, allusioni, simboli, in cui gli attori si cimentavano con perfetta sincronia e capacità interpretativa.
Quello in scena era un sogno, il sogno di un uomo che sa che il bello esiste, che può essere raggiunto. È uno spettacolo in cui forte rimane l’idea che la prospettiva da cui guardiamo le cose muta le cose.
IL TESTO, la scena, i costumi, le musiche erano evocative, ricche di significati. A volte potevano risultare ostici, e qualche detenuto confidava candidamente che non ne coglieva il significato, chiedeva che glieli si spiegassero.
Ovviamente tra i detenuti non c’era solo entusiasmo per questa impresa teatrale. C’era chi con ironia sorniona diceva di essere stato condannato a undici anni, sei mesi, e tre anni di teatro.
Spesso dovevo ricordarmi di essere in un carcere. Perché rapito dal bello, dalla raffinatezza che mi circondava, me ne dimenticavo. Ma in questo dimenticare mi sembrava di fare un torto ai detenuti, a me stesso, a chi legge.
In scena il bello, ma dopo? Dopo gli applausi, finita la tournée, che cosa accade nel down che coglie ogni artista dopo la creazione? Noi usciamo, le donne che partecipano allo spettacolo e che portano il loro femminile in un carcere maschile escono. I detenuti rimangono.
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