Trovare le parole per salutare Gianni Minà è difficile. Perché il suo lavoro e la sua vita ci sono più vicini che mai – tra l’altro è stato per molti anni collaboratore assiduo de il manifesto. Soprattutto perché rappresenta non solo una straordinaria esperienza di giornalismo sul campo, come si suol dire «nel posto giusto al momento giusto», ma una testimonianza diretta della storia in un periodo decisivo del Secolo breve – gli anni Sessanta, le rivoluzioni anticoloniali in piena Guerra fredda, il razzismo di Stato nell’apartheid del Sudafrica e negli Usa, e non ultimo, lo sport. Certo tutto questo per gran parte attraverso il «mondo che non ci appartiene» della televisione assolutista e nelle mani del potere, considerata l’unica forma di rappresentazione mediatica della realtà – ora soppiantata da web, digitale e sostituzione del virtuale al reale.

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Ma nulla sarebbe stato possibile da parte sua senza essere un «inviato sul campo» e senza l’umiltà della scrittura. Due attitudini che vedevano Gianni Minà impegnato non già a portare più fascine da ardere al festino trionfante dei miti. Ma al contrario a mostrare il riscatto di una umanità condannata ad essere inferiore e perseguitata. Così Cassius Clay era grande non solo perché con ali di farfalla danzava e vinceva sul ring, ma perché era il «labbro di Louisville», il giovane afroamericano che, con la segregazione razziale e il Kkk pe le strade del Sud, si fa campione della sua gente e si rifiuta di andare a combattere in Vietnam, diventando poi Mohammed Ali, un musulmano.

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Campione idealista e provocatorio

La sua passione per l’America latina, la sua letteratura e la sua musica, che fosse Garcia Marquez o Vinicius De Moraes, derivava da questa forte volontà: avvicinare ed essere interlocutore dei protagonisti che cambiavano la storia dalla parte sbagliata del mondo. L’amore per Cuba non era solo per Fidel ma per il popolo cubano e per i suoi eroi più popolari, il velocista da sogno Guantorena e l’elegante potente pugile Stevenson «l’unico degno – ricordava – di stare a confronto con il labbro di Louisville»: insomma, i miti per lui erano e sono milioni di persone. Che Guevara per lui non era solo il «guerrigliero eroico» di Alberto Korda – il fotografo tanto caro a Rossana Rossanda, o dell’ultima battaglia in Bolivia, dove venne assassinato dai militari, i sicari della Cia, nell’ottobre del 1967. Era il giovane medico dei Diari della motocicletta – il film e la documentazione per cui tanto si è speso – che costruiva la sua formazione pensando ad una riunificazione democratica continentale, prima scendendo nelle pieghe infernali della condizione degli ultimi della terra. Una ispirazione che resta e resterà viva.

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Quella sua marcia del rifiuto

Quel legame ostentato, amicale e profondo con i protagonisti in scena, dei quali bisognava mostrare subito la loro «umanità eguale», in carne ed ossa, prima che finissero patinati nelle pagine ufficiali della memoria, era la sua intenzione manifesta: quella di restituire autenticità e materialità al loro agire, rivelando le intenzioni profonde. Le sue non sono state tanto interviste – che rischiano la subalternità – ma un dialogo infinito che scavava e scava ancora. Ciao Gianni.

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