Tra otto giorni un grande paese avrà un parlamento con una maggioranza assoluta di deputati fedeli al loro presidente. Questi deputati saranno però stati eletti solo dal 10% dei cittadini in età di votare. La Russia di Putin? Il Venezuela di Maduro? La Corea del Nord di Kim Jong-un? No, la democratica Francia, che ha votato ieri e tornerà ai seggi domenica prossima per i ballottaggi.

La spiegazione di questo paradosso richiede una semplice calcolatrice: in Francia l’iscrizione alle liste elettorali non è automatica, tranne per i neodiciottenni: occorre richiederla esplicitamente. Questo fa scendere a circa il 90% la percentuale degli aventi diritto al voto rispetto alla popolazione in età di votare, circa 50 milioni. Domenica sono andati a votare poco più di 23 milioni di francesi, ovvero meno della metà degli adulti. Il partito del presidente ha ottenuto circa 5,9 milioni di suffragi, poco più di un quarto dei voti validi. Il numero di deputati effettivamente eletti si conoscerà solo dopo i ballottaggi di domenica prossima ma gli esperti prevedono che i sostenitori di Macron staranno in una forchetta fra 260 e 330 seggi (la maggioranza assoluta è 289).

Supponiamo che il secondo turno sia favorevole a Macron e che il presidente porti a casa 300 deputati. Questi deputati saranno stati eletti da circa 5 milioni di francesi (in genere al secondo turno il numero di votanti si abbassa in modo sostanziale) e questi cinque milioni corrispondono esattamente al 10% dei francesi con più di 18 anni. Ovvero, il presidente avrà una solida maggioranza parlamentare che gli darà pieni poteri grazie all’appoggio di un francese su dieci. E non siamo, come abbiamo visto, né in Russia né in Corea del Nord.

La Costituzione della V Repubblica faceva già del presidente un monarca repubblicano, attribuendogli vastissimi poteri, in particolare in politica estera. Una maggioranza parlamentare fedele priva le istituzioni di qualsiasi contrappeso significativo. Un potere quasi assoluto basato su una base sociale così striminzita non è però un buon segnale per la democrazia.

Come negli Stati Uniti, in Francia si vota volentieri per il Presidente, molto meno per i deputati. Nelle elezioni per l’Assemblée Nationale, l’ultima volta in cui la partecipazione al voto superò il 70% fu nel lontano 1997, quando la sinistra plurale di Lionel Jospin a sorpresa ottenne una maggioranza in parlamento, costringendo il presidente Jacques Chirac a nominare lo stesso Jospin primo ministro. Da allora, la partecipazione al voto è scesa ad ogni tornata elettorale: 64% nel 2002, 60% nel 2007, 57% nel 2012, 48,7% nel 2017 e 47,5% l’altroieri.

Le lacrime di coccodrillo esibite dopo ogni tornata elettorale si asciugano in fretta e il fatto che ormai da tempo viviamo in quello che gli scienziati politici definiscono «democrazie senza cittadini» non è oggetto di discussione sulle prime pagine dei giornali o nei talk show. Queste «democrazie» (le virgolette sono necessarie) hanno da tempo trasformato le elezioni in un rituale necessario ma del tutto staccato dalla possibilità dei cittadini di incidere sulle scelte dei governi. In tutto il mondo i poteri si sono spostati dal parlamento all’esecutivo, o ad istituzioni sovranazionali non democraticamente controllabili, una situazione che si riflette nel calo della partecipazione elettorale ovunque: domenica si è votato in molte città italiane e l’affluenza al voto è stata di circa il 40% malgrado il fatto che si votasse per i sindaci, ancora percepiti come uomini politici in grado di incidere sulla qualità della vita nei confini comunali.

A differenza dell’Italia e di altri paesi, la Francia ha conservato uno strumento di partecipazione più apprezzato e più efficace delle elezioni: la strada. Le manifestazioni, in particolare a Parigi, nascono quasi sempre in maniera spontanea, su temi variegati ma sentiti dai cittadini: le pensioni, il prezzo della benzina, il lavoro. Partiti e sindacati arrivano (quando arrivano) a rimorchio di studenti, contadini o lavoratori autonomi che di punto in bianco scendono in piazza: è quello che è successo tre anni fa con i gilet gialli, un movimento autoconvocato, iperdemocratico, originale nelle tematiche e nelle forme di lotta. Un movimento che è stato sconfitto un po’ dalla propria inesperienza politica, un po’ dalla brutale repressione poliziesca (i mezzi blindati su Rue de Rivoli non si erano visti dai tempi della guerra d’Algeria e del tentato golpe dei generali felloni, anno di grazia 1961) e molto dallo scoppio dell’epidemia di Covid-19.

Non ci sono ricette miracolose per far riscoprire ai cittadini il gusto di recarsi ai seggi, però l’apprendistato nelle piazze, il dibattito al bar (invece che su Facebook) e movimenti di cittadini attivi su temi specifici potrebbero essere un buon inizio.