La fumisteria bianca di Antrios
Cristalli liquidi Su «Arte» di Yasmina Reza, allegoria dell’arte contemporanea che toccò un nervo scoperto
Cristalli liquidi Su «Arte» di Yasmina Reza, allegoria dell’arte contemporanea che toccò un nervo scoperto
Un dipinto di m. 1,60 x 1,20 completamente bianco e senza incidenti pittorici tranne delle filettature diagonali, anch’esse bianche ma, a ben vedere, con delle gradazioni grigie, ocra e forse persino rosse. Esposta senza cornice, alla luce del giorno la tela vibra, facendosi lampante e ipnotica. È un’opera di Antrios degli anni settanta, anche se il pittore ha continuato su questa vena per decenni.
Ora, Antrios non fa parte della nobile progenie dei pittori astratti novecenteschi trattandosi del personaggio uscito dalla penna sferzante e feroce della drammaturga Yasmina Reza nella pièce teatrale Arte (Adelphi 2018).
Rappresentata nel 1994 e da allora tradotta in oltre quaranta lingue, la ragione del suo successo è da addurre senza dubbio alla scrittura felice, alla capacità di esasperare, con dialoghi brevi e incisivi, situazioni della vita quotidiana, di restituire quella bolla che è la borghesia intellettualoide parigina, elitista e così presuntuosa da illudersi di essere al centro del mondo. Serge, di professione dermatologo, è il fiero proprietario dell’Antrios, irriso da Marc, ingegnere aeronautico. Marc incarna quel fronte cinico che guarda con sospetto la pittura contemporanea e denuncia ogni tentativo di nobilitare qualsivoglia opera d’arte appellandola «moderna». Quel dipinto bianco è una farsa, come lo sono i capisaldi del modernismo, ovvero il monocromo e il ready-made, che non sono più considerati come l’archeologia del contemporaneo ma come operazioni che è ora di denunciare per quello che sono: delle imposture, ammantate nondimeno di un’aria ermetica che le tiene a debita distanza dallo sguardo del profano. Pura fumisterie.
Al di là di alcuni aspetti caricaturali, Marc incarna bene la crisi dell’arte o la querelle de l’art contemporain, come l’ha denominata il filosofo Marc Jimenez in un fortunato saggio del 2005, dove ripercorre la discussione pubblica che ha avuto luogo in Francia negli anni novanta. Tra gli esempi cita proprio Reza, che scrive «arte», tra virgolette, a indicare la cosiddetta arte, così denominata da una pletora di musei, gallerie, critici, collezionisti, case d’asta, mezzi di comunicazione e così via, volti a generare un consenso, uno standard, il gusto in fatto d’arte.
Solo in virtù di tale sistema quella superficie dipinta di bianco e appesa al muro diventa un piccolo capolavoro, un monocromo bianco, un buon investimento e non «una merda», secondo la lapidaria sentenza di Marc, un commento, come si suol dire oggi, definitivo. Ma, al di là della boutade, Arte contiene tanti passi che echeggiano le discussioni dei critici d’arte: «Non si può trovare orrendo l’invisibile, non si trova orrendo il niente»; «C’è qualcosa. Non è il niente. È un’opera, c’è dietro un pensiero».
Arthur C. Danto considerava Arte in quanto allegoria dell’arte contemporanea, osservatorio della conflittualità del dibattito in corso, della legittimità del contemporaneo e dei giudizi di valore estetico, del rapporto tra pubblico e istituzione, della promozione pubblica (da americano, Danto era sorpreso che la creazione contemporanea fosse sovvenzionata dallo Stato francese). Insomma, se Arte ha divertito tanti spettatori e lettori, la ragione sta nel nervo scoperto che tocca, quello dell’arte contemporanea.
Del resto per descrivere il dipinto immaginario del fantomatico Antrios, pare che Reza si sia ispirata a uno dei massimi pittori astratti francesi, Martin Barré, e non, come potremmo pensare, a Robert Ryman, meno conosciuto in Francia. Un Paese che, smantellato il sistema delle Belle arti, ha visto emergere una nozione più ambigua e sperimentale, intraducibile in altre lingue, quella di arts plastiques. Antrios ne è il risultato e la prima vittima.
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