Due giorni fa, a Lussembrugo, di fronte alle pressioni concentrate dei governatori del Mes che insistevano per strappare quella firma italiana senza la quale la riforma dell’ex Fondo salva Stati resterà al palo, il ministro Giorgetti aveva risposto picche e poi, in apparenza, parlato d’altro, lamentando la «intollerabile» conventio ad excludendum nei confronti dell’Italia sulle nomine dei vertici europei. Casomai il messaggio non fosse stato abbastanza chiaro ieri il ministro dell’Economia ha spiegato, rincarando: «Ho solo detto che chiederci ora di sottoscrivere la riforma del Mes è un po’ buttare sale sulla ferita».

Per ora, ha aggiunto Giorgetti, il sì dell’Italia è fuori discussione. Più in là si vedrà. È un avvertimento implicito e non riguarda solo il Mes. Insistere nel tenere l’Italia fuori dalla porta significa correre grossi rischi di incidenti a ripetizione e paralisi frequente. Perché l’Italia è il terzo Paese di un’Unione nella quale ancora non si può decidere niente senza unanimità e perché a questo punto ci sono pochi dubbi sul fatto che Ecr sarà il terzo gruppo dell’europarlamento per numero di eurodeputati.

I LIBERALI, PASSATI in svantaggio dopo l’ingresso tra i Conservatori di sei deputati dell’Alleanza per l’Unità dei romeni, erano impegnati in una strenua campagna acquisti per recuperare i tre seggi di svantaggio ma ieri, invece, hanno perso i 7 deputati cechi di Ano. Recuperare diventa per Renew una missione quasi impossibile. Il terzo posto frutterà al gruppo di Giorgia Meloni postazioni utili per una guerriglia parlamentare, soprattutto se le due destre marceranno divise per colpire spesso unite. Il cordone sanitario anti Meloni, già molto criticato da un nutrito drappello di capi di governo e bocciato ieri anche da Bloomberg, probabilmente è destinato a cadere di qui alla riunione ufficiale del Consiglio, il 27 giugno.

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CERTO, I VOTI DI UNA PARTE di Ecr, in tutto una trentina, per Ursula von der Leyen sarebbero solo aggiuntivi. Tanto più Meloni deve ottenere qualcosa per giustificare un sostegno che segnerebbe un dissenso pesante dal grosso della destra europea, incluse molte forze della stessa Ecr. Chiede una posizione chiaramente spostata a destra sull’immigrazione e un commissario di peso, che a questo punto sarebbe quasi certamente Raffaele Fitto con delega al Pnrr.

Fitto lascerebbe però sguarnita la posizione in Italia: la gestione del Piano passerebbe quasi certamente nelle mani della stessa premier con l’interim. Solo nel caso non impossibile ma neppure probabile, e che comunque Meloni non si augura, di una caduta di von der Leyen si aprirebbe uno spazio per la candidatura di Antonio Tajani alla guida della Commissione. È una voce che circola molto ma la realtà è che Tajani in questo momento non può lasciare le redini di Forza Italia, senza contare il veto tassativo del Pse sul suo nome. Se von der Leyen fosse costretta a mollare, la palla passerebbe al greco Kyriakos Mitsotakis, graditissimo alla Cdu, cuore del Ppe.

LA STRADA MIGLIORE per confermare la conventio contro la premier italiana, negandole anche un commissario di importanza rilevante, sarebbe l’ascesa alla presidenza del Consiglio europeo di Enrico Letta, altra voce che rimbalza da settimane e che potrebbe sembrare confermata dal ritiro della candidatura dell’ex segretario del Pd alla direzione di Sciences Po, la prestigiosa scuola quadri francese per élites.

Letta ieri ha escluso che il passo indietro dipenda da ambizioni europee ma si sa che in questi casi le smentite non sono precisamente oro colato. Di fatto la sua nomina scioglierebbe le tensioni con il Ppe, che non vuole il portoghese António Costa e chiede in cambio del semaforo verde una staffetta a metà legislatura che i socialisti non hanno però alcuna intenzione di concedere. Soprattutto permetterebbe di mettere all’angolo la premier italiana senza umiliare l’Italia e anzi quasi costringendo la presidente beffata a fare buon viso a cattivo gioco.

MA LA MANOVRA, pur suggestiva, appare più fantasiosa che realistica. Comunque implicherebbe una rottura non ricucibile con il governo di Roma e farebbe saltare come in un domino tutte le altre candidature per i vertici europei. La partita, il 27 giugno, si giocherà con le carte, e i nomi, già messi sul tavolo nella cena di Bruxelles.